Bontà senza articolo di Walter Siti



Partiamo dal fondo, cioè dal peggio. Waler Siti continua a giochicchiare tutto soddisfatto al cinico gioco del moralista che accetta e giustifica il male morale. Sul serio. Si chiede, ci chiede, dove sia mai finita la Bontà (nel titolo fortunatamente, subdolamente, miracolosamente, non c'è l'articolo...). Se lo chiede di fronte a uno specchio. Come la strega di Biancaneve. Nella solita forma insignificate dell'autofiction e con tutti i particolari accessori che profumano di cose scadute.  La sua ricerca: nella dolenza, nella decadenza, nel kitsch, nella reificazione, nella vecchiaia e nell'apparenza. Il solito, insomma. Ma in tono minore. Siti il Breve. Siti il re. Che qui appare come ologramma in una piccola grande bellezza ripiegata nel contesto editoriale. Nella vecchia cara, indebitata editoria che non c'è più.
Il protagonista del libro è un vecchio intellettuale che se la gode. Un Dorian Gray sopravvissuto al ricatto del diavolo. Decrepito e libidinoso. Ovviamente omosessuale. Uno che progetta un suicidio in grande stile. E nel finale, che vuole per forza moralizzare e simbolizzare, un Siti tale e quale. Un talpone. Che infila la testa sottoterra e annusa la puzza della realtà. Buca il terreno desertico del contemporaneo. Vede un po' di quello. Un po' di quell'altro. Ma vede male.

Arriviamo al senso. Sempre quello: pasolinismo echizzato. E alla pretesa di raccontare una contemporaneità estranea all'autore. Siti ci prova pure. Ci parla di social e di turbocapitalismo, di nuovo economo e di alienazione filosofica. E si perde, con il suo linguaggio fotografico e tristemente sociologico. Sociologia scarsa in matematica. Ferma ai modelli statistici del primo Novecento.

Giunti alla fine. Siti è tutto stile. Uno stile brutto. Assomiglia a Sorrentino. Stesso stampo. Talpe da giardino. E come eliminarle.

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