Il peggio e il meglio dei libri pubblicati nel 2018



Trascurando i certoquindici validissimi motivi di renitenza che mi impedirebbero di classificare un anno di libri alla fine di un anno di inevitabili delusioni nei confronti dell'oggetto letterario (il 2018), stasera mi butto prima che sia troppo tardi nel futile gioco del meglio e del peggio. E nel cuore, giuro, un amalgama di fastidio e odio, pena e compassione, vergogna per me stesso e noia. Partiamo dal peggio, giusto per ribadire le priorità: Destino di Raffaella Romagnolo, edito da Rizzoli. Perché l'ho letto? Ma che ne so! Sono stato forse fuorviato dall'ambientazione bassopiemontese, o dal consiglio di qualche stronza. Insomma mi sono concesso a questo romanzetto, sperando di non sprofondare nel male di racconto di un'amicizia genialuccia sabauda. E invece caddi in qualcosa che era peggio di ciò che paventavo, ovvero nella scontata, tristissima e inutile de-composizione storica di una formazione binaria femminile al Nord, nel passato prossimo, con pretese di cosmetica morale. Una noia allucinante.

Ho trovato poi parecchio antipatico e deludente I fucili, libro nuovo, e vecchio di vent'anni almeno, di William T. Vollmann, pubblicato da minimum fax. Traduzione estetizzante, posticcia e compiaciutella, a fondo nell'epica americana dopata da significati estranei: due navi inglesi restano intrappolate nel ghiaccio in Nord America, e da qui il cristallizzarsi artificioso di una megametafora eco-politica ed esistenziale, con l'immancabile riferimento a mobydick & cuoreditenebra & letterascarlatta e tutto il resto, nella norma abnormale del c'era una volta in letteratura di frontiera, della letteratura del contrasto drammatico sorto dallo squilibrio determinato da un potere universale su volontà assai particolari, con lo spettro evocato a sproposito del cambiamento climatico e fattacci del genere. Consiglio: posate il fucili, se volete leggere un Vollmann apprezzabile procuratevi Ultime storie e altre storie (Mondadori), che è tutta un'altra storia.

Malgrado tutti i pregiudizi che mi avessero avvertito, ancora più scadenti del previsto sono le pagine di Divorare il cielo di Giordano. Con i tormenti adolescenziali. Ancora. Il senso sfuggente. Ancora. Le metafore irritanti. Ancora. L'atipicità spiccia resa in centesimi, come ideale di bellezza. Ancora e nonostante tutto. Come ancora si scrivono romanzi di riscatto femminile in terre livide di falsa autenticità come, per esempio, il Salento: state alla larga da Notturno salentino di Federica De Paolis (Mondadori), non lasciatevi confondere da questa menzogna post-romantica. La delusione mi sorprende poi, più o meno a pagina 40, durante la lettura de La boutique di Eliana Bouchard (Bollati Boringhieri), che parte sofisticato e promettente, tanto, ma all'improvviso si risolve nel tedio iperbolico di una prosa acida. Letto da poco e subito detestato il tanto chiacchierato M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, la biografia romanzata di Mussolini che tutti si aspettavano esattamente così com'è stata redatta, con critiche già pronte e scuse precise per giustificare le parti dolci e quelle più fredde, le scemenze storiche e i fragili tentativi gattopardiani. Ci sarebbero da dire tante ma tante cose antipatiche pure su quei due troppo discussi Siti dell'anno: il Pagare non pagare e il Bontà... Però, alè, ne abbiamo già parlato in un post qualche tempo fa e il maestro Siti dovrà accontentarsi di una critica d'autorità. Bocciamo pure Napoli mon amour di Alessio Forgione, sempre in base ad argomenti già espressi, già aspettandocelo tradotto in un filmetto drammatico indipendente o in una miniserie rai. Male pure Salvare le ossa di Jesmyn Ward (questo e quello di prima entrambi editi da NN editore), che si dice libro tosto, tagliente, realissimo, con i cattivoni e disperati americani che non si redimono e non capiscono, in un gioco di esasperazione da serie tv che in forma romanzata non ha senso neppure dopo 70 anni di morte del romanzo, e ma quando mai!

Dite no, per coscienza, decenza e onestà ad Aldo Busi. Dite no con consapevolezza a Le consapevolezze ultime (Einaudi) e alle sue forme di narratologia fuori dal tempo e fuori da ogni grazia di senso che prova la strada sciocca della satira di costume e pantomima gaddiana in bresciano senza la grazia dell'ironia. Noia d'autore, ma questa volta in esordio, viene anche dalla narrazione bellica e biblofila di Marco Lupo, con Hamburg (Il Saggiatore): due palle così. Non parliamo nemmeno di Baricco che ricicla e aggiorna le sue scemenze moralistiche sui Barbari e diventa un mostro metà Alberto Angela e metà Bruno Vespa per raccontare la rivoluzione digitale in The Game. Trascurabile al limite del fastidioso Asimmetria della tanto osannata Lisa Halliday. Tutta roba da buttare nel caminetto per alimentare la fiamma più oscurantista che si può.

Pausa sigaretta o video porno, fate voi.

Tra le cose belle lette nel 2018, segnalo innanzitutto il nulla. Poi devo citare il bellissimo e coinvolgente lavoro di Mathias Énard tradotto da e/o come La perfezione del tiro. Mi è piacuto abbastanza anche il neo-pulp serioso, composto e al contempo scioccante, de Il marchio di Mariella Mehr, pubblicato da Fandango, con traduzione di Tina D'Agostini. Assai carino, facile facile, senza pretese letterarie, forse proprio perché pieno di pretese (ovvero cinicamente centrato sul bisogno di nostalgia e revival) è l'ultimo romanzetto generazionale di Enrico Brizzi ambientato ai tempi di Jack Frusciante: Tu che sei di me la miglior parte. L'ho letto sorridendo, dall'inizio alla fine, con nostalgia appunto, cioè ricordando un sacco di cose. Dalla parte del weirdismo e della ricerca italiana di belle apocalissi e focosi olocausti in presa diretta c'è La festa nera della bravissima e disturbatissima Violetta Bellocchio. Discreto e in certe pagine acido, ipnoticamente inquietante.

 Come già annunciato nei post coevi, vale la pena leggere Cereali al neon. Cronache di una mutazione di Sergio Oricci (effequ). Per rimanere in campo weird, merita stima Steve Erikson con la sua prova di forza fantascentifica e distopica intitolata Shadowbahn. Tra i fantasy, il libro dell'anno è il mastodonte di carta di Terry Pratchett intitolato Maledette piramidi (Sonzogno - Tea). Tra gli italiani, sempre parlando di fantasy, fa ben sperare il romanzetto di Simone Chialchia: James Biancospino e le sette pietre magiche (Aporema edizioni), in cui si parla, senza fronzoli, senza troppa inutile enfasi, di mostruosi succhianime che si aggirano a Venezia alla fine del Rinascimento. Tra le cose più cupe, c'è invece I vivi e i morti, di Andrea Gentile (minimum fax): autore presuntuoso ma in un certo senso eroico, pieno di talento, dico quasi sul serio; forse, miei cari, la lettura più interessante (azzardiamo, a tanto così dall'essere memorabile) dell'anno in termini di fiction occulta viene da questo tipo, non fosse per un antipatico compiacimento di fondo, tendente alla nebulosità, al gusto lynchiano che tanto mi fa schifo. Ma che volete farci, è roba di moda, cioè di tendenza letteraria sotterranea. Non per nulla, Gentile è pure direttore editoriale de Il Saggiatore.

Tra i saggi, salviamo e ricordiamo il saggio Alberto Casadei con la sua Biologia della letteratura (Il Saggiatore) e il pasticcio teoretico-grottesco sui mostri Altre menti di Peter Godfrey-Smith (Adelphi). E poi non mi viene in mente più niente. Forse dimentico qualcosa d'importante, ma non credo sia importante.

Ok?


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