Sogni e favole nel barocco triste di Emanuele Trevi



Vorrei dire una casa sul dire scrivendo. La dico o non la dico? La scrivo. In Italia a saper dire scrivendo sono rimasti in pochi. Tre o quattro, a voler essere generosi. E tra questi c'è Emanuele Trevi. Che fa del romanzo qualcosa di complesso e infuocato, e striato di vampe opalescenti, facendo però a meno del romanzo. Le cose sue sono appunto appunti, saggi non saggi, esperimenti pieni di ingorghi, momoir ardui e imbastarditi da acidissimi manierismi, con duecento trappole di schietta e potente tensione poetica. Dilemmi e nichilismi, di sensibilità novecentesca, ma posti come esigenze espressive nuove. Trevi divaga, con tutta la consapevolezza dell'artista incattivito. Realismo e  trascendentalismo nominalista: un infinito assai imperfetto. E nell'ultima sua narrazione intitolata Sogni e favole ci mette dentro se stesso come essere indifinito che sta creando se stesso, con le illusioni, le intepretazioni sbagliate, gli autoinganni, l'ombra della realtà che si riverbera nel sogno, la goccia di senso che dà profondità all'allucinazione. Oh: il barocco!

Si tratta di un'opera uscita per Ponte delle Grazie alla fine dello scorso anno. Io però sono riuscito a leggere queste duecento e passa pagine solo ora, e solo per questo, devo sottolinearlo, nella mia precedente classifica sul meglio del 2018 non ci trovate Trevi. Ma lo scrivo ora: Sogni e favole è la cosa migliore che è stata pubblicata in Italia nel 2018. Semplicemente: la cosa più bella da leggere. E me ne frego della storia che non è storia, dell'ordito strambo e dei ricordi che corrompono la finzione artistica e l'invenzione narratologica, dei personaggi prima chiamati in causa e poi dimenticati, degli omaggi più o meno dichiarati a Pasolini, Garboli eccetera. Trevi è bello da leggere, appaga, sconvolge, ubriaca. Fa commedia. E infatti cita Metastasio. Stupendo, no? Con Roma in primo piano e poi sullo sfondo, sfumando, incenerendosi. Un ricordo bruciato, in tempi di autobus che vanno in fiamme.

Il testo si basa su dei ritratti che per alcuni versi interpreto come proustiani di tre personaggi culturali importanti per Trevi e per il Novecento romano: il già citato Cesare Garboli (critico letterario raffinato e pazzo), il fotografo Arturo Patten e la poetessa Amelia Rosselli. Tre casi umani, tre povere anime violentate dal loro stesso talento. Talento di che?, sembra chiedersi il Trevi. Uno sa criticare, una poetare e l'altro ancora ritrarre. Cioè quello che fa Trevi in questo libro con le frasi. E c'è da dire che il talento è una questione amara. Che cos'è? Forse il talento vero è quello della vita. L'arte, sì, nobile, bella e tutto quanto, ma alla fine è una stronzata. E se uno non è buono a vivere, allora non va celebrato. O forse sì? E qui questi tre personaggi diventano maestri per Trevi, determinano la sua evoluzione. Verso cosa, non è dato sapere. Sono importanti le figure. Non i significati. Le figure dicono. I significati sono stupidi.

Personaggi del genere possono essere sfiorati e maltrattati, giudicati e nobilitati, solo dalla penna di uno così. Uno come Trevi. Uno dei più grandi scrittori italiani.

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