Bret Easton Ellis che più bianco non si può



Nel 2019 ancora a sguazzare nel cloro della piscinetta del postmoderno. Post questo e post quell'altro. Con l'America padrone che impone comandi molli e rabbiosi con tweet e meme di scarsissimo livello, e scrittori miracolati che si adornizzano e si mettono a minimamoralizzare su Hollywood, consumismo, 9/11, millennials che non possono andare mai d'accordo con i vecchi leoni depressi della Generazione X (e qua c'è di sicuro un motivo biografico, che forse approfondiremo), like, post, retweet, movimentazione del movimento LGBT, Kardashians in performance art, Eminem che è meglio di Bob Dylan, l'importanza di frequentare palestre per avere gli addominali scolpiti, Wall Street e dedacenza dello spaccio a NYC.

Tutta questa roba inutile arriva dalla mente di Bret Easton Ellis, che fu meno di zero e ora si crede il numero uno. E si fa esegeta della contemporaneità, con il suo saggio (il primo dopo sei romanzi sopravvalutatissimi): Bianco. Una polemica che non è mai polemica. Una scrittura-reality pensata per criticare l'ideologia dei reality. Una malattia generale da diagnosticare e curare. Come? Con l'estetica, amici cari. Che domande.

Che poi, sì, Ellis a metà anni Ottanta doveva fare una certa impressione con la sua prosa. Certi passaggi potevano addirittura essere interpretati come offensivi. Aveva centrato il punto, il romanziere, era stato forse sincero con se stesso e con il mondo: aveva cioè penetrato qualcosa (oddio, forse no, lasciamo stare). L'american psyco di Ellis era credibile e affascinante. Poi però è successo quel che succede quando i critici storcono il naso ma il pubblico recipisce un quid pruriginoso e vietato: la gente ha mitizzato quei racconti banalizzandone il significato. Tempo quindici anni e pure i critici hanno fatto dietrofront: rileggendo Ellis scoprivano una certa verve profetica, scoprivano pagine dense e pure, da nuovo Joyce sotto coca e anfetamina. Qua il guaio. Troppe sottolineature sul fascino della decadenza e sulla giustificazione del fallimento, no? Ellis stesso si è montato esageratamente. Ha perso fuoco. Si è creduto epocale. Il Salinger della X generation. Un uomo bianco, un dandy, con la giusta passione per le droghe e il glamour e con una sana tendenza al rifiuto delle regole. Che adesso si fa saggista per spiegare che la brutta realtà dei tempi attuali dipenda da un distorto uso dell'imperativo estetico. Parlando di fatti suoi, di resistenza al degrado digitale, del mondo degli attori, dei like che mette sui social, delle polemiche che segue su twitter, dei ragazzi con cui esce, delle droghe che può ancora permettersi, delle celebrità che lo ammaliano (scontato: Madonna, Dylan, Lennon, Charlie Sheen, Kim Kardashian, Kanye West, l'ora saggio e impavido Ellis scopre l'acqua calda. Oh, ci dice: guardate che tutta l'espressione democratica del mondo in streaming, la musica gratuita, il coinvolgimento del pubblico nello show, il pluralismo e l'inclusivismo, in realtà sono effetti di un sistema sempre più intollerante, cattivo e arreso al capitalismo. E poi, arrivati a ciò, ovviamente, si parla di sesso (post-sex), di droghe nuove (psicofarmaci e post-oppiacei) e di potere (post-empire).

Per Ellis il problema sta nella deformazione dell'arte e della cultura, che ora sembrano diffuse e infuse in tutto (di nuovo: su FB, su instagram, nei reality), quando dovrebbero arrivare dal cielo. Da dove, di preciso? Il democratico Ellis qui ritorna per un attimo aristocraticissimo. Cerca per tutte le pagine del suo saggio di mostrarsi complice e vittima del degrado che descrive, ma alla fine cede alla presunzione di puntare il dito e alzare il mento. Lasciate a me che sono un grande artista il compito di badare ai contenuti dell'arte e della cultura, dice. Voi fate silenzio e ascoltate.

Però poi twitta un commento acido a Kayne West e mette like a un post con un ragazzotto seminudo.


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