La mappa di Remoria




Ahimè, il sottotitolo lo spiega fin troppo chiaramente: qui si parla di una "città invertita", apocrificizzando il trascurabile nel mito, la deiezione nel nutriente, la squallida concretezza del dato ingiustificabile di fatto nel reattivo controracconto di un sogno di impossibile indipendenza e fascino. Eppure avevo creduto di poter trovare qualcosa di sincero, di interessante e istruttivo in questo pseudo saggio sulla tormentata e sgarrupata periferia romana... Invece: niente. Ed è terribile, miei cari. Ma con quale cuore, mi domando e dico, con quale fine, uno scrittore può permettersi di prendere tra le mani tutto questo marcio, questo complicatissimo e immanentissimo disagio, per farne polpetta gourment di riciclo e ristoro controculturale a uso e consumo di una nicchia che è pura espressione di un annoiato e infecondo agio? Qui i mali storici e i caratteri fondamentali del degrado delle periferie vengono mutate in trasognante antitesi dialettica, in farmaco (droga ricreativa) contro la spersonalizzante e beata tranquillità intellettuale della contemporaneità urbana.

Il saggio in sé non è mal costruito. Dimostra coraggio e originalità, almeno in partenza. Vale, proprio perché si perde nel racconto biografico, nella spicciola sociologia e nel contropoema epico e infine nella patastoria. Ma il fatto è che si perde male, perché finisce in una bildungroman soggettivistica aggiornatissima dal punto di vista dei trend del sottobosco alternativo ufficiale: dispotia, accelerazionismo, low-life culture e controsottocriticismo. E tutto ciò, manco a dirlo, assomiglia più a una perversione intellettuale che a una diagnosi o una critica fondante all'assonnato e afasico pensiero dominante.

Valerio Mattioli parte dal mito di Remoria, la città altra, fondata da Remo, lo sconfitto, il fesso, il disattato, dopo che Romolo lo ha ricacciato al di là del primo significativo limes occidentale. Poi ci dice che questa Remoria esiste ancora: è la Roma underground, iperperiferica, povera, cafona e drogata che sta di là dal GRA. Quella di Pasolini e Caligari, dei coatti di Centocelle, delle occupazioni abusive, dell'eroina, dell'ectasy e della coca tagliata male, degli Spada e dell'eterno disagio. La Scampia trasformata (e umanizzata, romanticizzata) in borgata. Un mito del passato oggi assente e indisponibile, che in Mattioli si ingigantisce e diventa sogno, bellezza deviata, simbolo polisignificante, e humus su cui fioriscono grandi, fondamentali ribellioni. E tutto questo, purtroppo, non è vero. La controcultura, la rivoluzione, i movimenti originali sono sempre qualcosa che arriva dall'alto, o per traverso, che nel disagio si infiltrano solo alla fine, e superficialmente. Perché nel cuore del disagio c'è solo il disagio e la voglia di risolvere il disagio. E un vero disagiato lo sa che la rivolta, il punk, la dark-wave, il porno estremo e la trap alternativa non servono a niente. Servono i soldi.

In tutto questo, il punto che mi sta più a cuore sottolineare è che saggi contaminati del genere, dove alto e infimo, iperspecialistico e fondamentale, stracult e accademia si mescolano non hanno senso come saggi. Dove sta la saggezza? Dobbiamo salvare il racconto? E qua dove sta il racconto? Che cos'è Remoria? Una guida turistica per intellettuali con la nostalgie de la boue? A Napoli, per esempio, ci sono dei turisti deficienti che si fanno portare con una macchiana dai vetri oscurati nelle Vele. A tipo zoo safari. Lessi tempo fa che lo fece pure Balotelli, e che lo rapinarono. Giustamente.




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