Il senso del romanzo storico. Alcuni romanzi storici che mi sono piaciuti (Nel nome di dio, Trimalcione e il mistero di Plinio, Pompei)...


Il passato è un senso incrostato che bisogna raccontare con piacere o con inquietudine


Mai stato un grande appassionato di romanzi storici. E mai apprezzati i canoni e le derive attuali del filone. Ho notato che gli autori, per allontanarsi dagli stilemi romantici, didascalici e naturalistici propri della narrazione storica, stanno rendendo i loro romanzi sempre più simili ad asili di indifferente arresa e di compromessi nei confronti dell'insoluto problema di compresenza fra vero e finzione. Ve la ricordate la questione manzoniana, no? Come tenere in un romanzo storico i fatti e i racconti inventati, l'insegnamento dotto del ricercatore e la fantasia del narratore... Bene, gli autori contemporanei se ne fottono. Neanche più lo tengono in considerazione, il problema. E si permettono sintesi disgraziate e presuntuose tra rievocazione e ricostruzione arbitraria. Si rivolgono disperatamente a una svilente contaminazione con generi opposti o discordanti. L'anno scorso, per esempio, ho aperto Fu sera e fu mattina di Follett, a detta di tutti il miglior romanzo storico degli ultimi anni... Una cosa vuota, storica nel senso peggiore del termine (l'autore crede davvero di poter dare senso al passato sconosciuto attraverso la narrativa, ovvero alla sua tecnica di invenzione letteraria, intrecciando trame che parlano di uomini e donne che starebbero benissimo in un giallo contemporaneo e il cui spirito non è antico né presente ma vuoto). Dicevo, ho letto Follett e mi sono appallato dopo nemmeno trenta pagine. Troppo lungo, troppo ancorato a particolari accessori che oltre a dare contezza di un impegno dell'autore o dei suoi collaboratori in una ricerca storica non dicono nulla. Non mi sono piaciuti nemmeno i romanzi di Barbero, dedicati a cose vecchie o più recenti, dove il grande tema d'attualità fagocita tutto il senso di meraviglia per il passato e il rispetto per l'atmosfera di lontananza. Quando si parla di storia, in generale, preferisco i saggi.

Non mi piacciono i romanzi che restaurano il passato senza ritegno. Cioè non mi piace quando si vuol dare al passato un'autenticità impossibile da recuperare o quando, al contrario, si vuol rendere il passato uno specchio del presente. Roba troppo lucidata o invecchiata ad arte per ingannare. Roba da falsari da quattro soldi. Meglio in questo senso gli imitatori. Ovvero quelli che leggono Tacito, Paolo Diacono o qualche registro di storia locale e ne danno una rilettura passabile per il presente e narratologicamente sensata. E meglio anche quelli che mettono sì la storia da raccontare in primo piano ma che sanno usare la storia non solo come un mero sfondo. 

Ecco il punto: il contesto storico da solo non fa il romanzo storico. C'è bisogno di altro. Cosa? Secondo me, dato che non hanno più senso faccende come la pura rievocazione del passato, la divulgazione di nuove interpretazioni storiche, le conciliazioni tra verità storica e fantasia e interpretazione del passato per parlare del presente, quello che dev'esserci o può esserci ancora è solo un sentimento. Positivo o negativo non importa... Il romanzo storico dovrebbe comunicare il piacere dello scrittore nello scrivere di cose del passato o l'inquietudine di cercare verità perdute o vite dimenticate nei tempi remoti. Se non c'è piacere o inquietudine, il romanzo fa schifo.

Un romanzo storico che mi è piaciuto è Nel nome di Dio di Luigi Panella, edito da Rizzoli. Non per la scrittura, in cui non ho trovato uno stile coinvolgente o mirabile, né per l'ambientazione. Mi è piaciuto per la trama. Per il modo in cui l'approccio da classico romanzo storico di rievocazione dello spirito passato riesce a imporsi sulla sottotraccia gialla. Qui ci sono sia piacere che inquietudine. C'è nostalgia e paura. C'è lo sforzo di risalire al momento di origine del conflitto. Quasi una cosa politica. Ma molto molto sfumata, ovviamente.

Il romanzo parla dello scontro fra Cristiani e Saraceni: la settima Crociata. E di un documento romano da recuperare per dare un nuovo corso alla storia. Danbrownismi a parte, la lettura mi ha soddisfatto. Perché l'opera è d'intrattenimento. Ha buoni personaggi e belle scene. E mostra solo quelle pretese che fanno parte della tradizione del romanzo storico, senza cioè eccedere con pretese sulle pretese. 

Un altro romanzo di buon livello che ho letto s'intitola Trimalcione e il mistero di Plinio, scritto dall'ingegnere Armando Carravetta e pubblicato da Aporema edizioni l'anno passato. L'ho letto con soddisfazione perché è scritto bene e perché rivela personaggi con un valore narrativo che trascende il ruolo storico o la strumentalità del gioco di ricostruzione. La trama ci pone di fronte alle avventure senili di tale Gaio Marcione, liberto ricchissimo e impiccione, famoso per le sue feste in villa (con tanto di orgettine) e per il suo potere corruttivo, grazie al quale è riuscito negli anni, concussione dopo ricatto, a far carriera e a farsi rispettare nella città di Puteoli e a Roma. Ma come capita spesso agli uomini di grande fortuna e potere, anche Marcione è divenuto bersaglio di critiche, sospetti e sfottò, al punto da essere trasformato in ridicolo protagonista in una famosa opera dall'Antichità, ovvero il Satyricon di Petronio. Il Marcione di Carravetta è infatti il celeberrimo Trimalcione: panzone, ignorante e depravato, simbolo di ogni decadenza.


Carravetta tenta invece una riabilitazione del personaggio. Se davvero Trimalcione era riuscito da schiavo straniero a diventare uno dei più potenti affaristi di Roma, qualche qualità doveva avercela, giusto? L'intraprendenza, per esempio. O la curiosità. Proprio per curiosità, il vecchio Marcione si lascia coinvolgere in un intrigo collegato a una cospirazione. Alcuni senatori vogliono far fuori l'imperatore Tito, ma per farlo hanno bisogno di alcuni documenti in possesso di Plinio il Vecchio, un compaesano di Marcione.

L'azione si svolge durante l'esplosione del Vesuvio che riduce in cenere mezza Campania Felix. Ma Marcione non si tira indietro. Arriva fino a Pompei, sulla lava appena solidificata. E qui l'autore mi ha stupito con una cronaca abbastanza seria e documentata dell'azione di "protezione civile" e soccorso messa in piedi dai Romani.

Che cosa hanno fatto i Romani di fronte all'esplosione del Vulcano? Come sono arrivati nei territori colpiti dalla lava? Come hanno ricostruito? Carravetta lo spiega, ma non mette in secondo piano la storia principale e nemmeno il suo vecchio e strano personaggio. Uno che per indagare sulla verità paga mazzette e interroga zoccole e papponi, si butta in mezzo a orge e chiede favori ai criminali. Un politico moderno, potremmo dire. 

Il romanzo fila, immune da intellettualismi, ideologismi, preziosismi, complicazioni e sofisticazione di sorta. Intrattiene, su sfondo storico pertinente. E questo secondo me deve fare un romanzo storico. Che il troppo stroppia.

Una tragedia!


Sempre su Pompei c'è un altro romanzo storico uscito di recente che mi sento di consigliarvi. Si tratta di Pompei. L'incubo e il risveglio di Angelo Petrella. E qui, a differenza dei due romanzi precedenti, il testo diventa occasione di riconsiderazione di un altro dei temi fondamentali del genere: il narrare fatti antichi come occasione di riflessione critica. Qua la fine di Pompei non è trattata tanto come un disastro naturale ma come il simbolo di una decadenza generale, di un crollo del sistema e di una potenza che si è fatta interamente corrodere dalla corruzione e dai vizi. L'opera è ricca di violenza e di momenti tragici, come in un b-movie. Tutto il romanzo è la preparazione a un climax. Un crescendo di schifezze, cattiverie, bassezze, intrighi e fetenzie che culmina con il botto, ovvero con l'esplosione finale. Come nel film di Antonioni. 

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