Mathias Malzieu sfrutta l'immaginazione per contrattare un prestito a tassi agevolati sul tempo a venire, per insistere sulla trita metafora estorta al reale e alle circostanze di vita scontata. Di solito la butta sul surreale, sulla ragione di un malinteso esistenziale e su un'etica assente applicabile a ogni dato di fatto. La natura del suo racconto, che è confessione, sublimazione e lamento, proviene direttamente dalla tradizione liberale e realistica della fiaba moderna. L'immaginare e anelare ciò che la meccanica del cuore desidera ovvero ciò che la società impone di desiderare. Una possibilità impossibile. Tutti i suoi scritti si nutrono di questa perversa e scontata volontà di distorsione morale. Ora però è tempo anche per Malzieu di ribaltare i sistemi già noti di riferimento. In primo piano compare la realtà. Dietro, occultata dall'ombra lunga del disagio, la speranza dell'immaginazione.
Piovono detriti di commozione.
L'autore è stato gravemente malato. Affetto da un morbo raro, incurabile, devastante. Poi è guarito. Il suo Vampiro in pigiama, best seller in Francia e ora pubblicato in Italia da Feltrinelli, parla dello strazio soggettivo e universale di chi affronta un male del genere, si dica pure "un genere di male". Un resoconto della sofferenza quotidiana, della rinuncia, del terrore, degli incubi, delle remore, dell'isolamento, delle reazioni e della tenacia premiata dall'ingratitudine o dalla fortuna. Giudichiamolo come un libro in parte surreale, in parte feticistico, sulla prepotenza della speranza. Un apparire attivo che costituisce una mediazione o una funzione necessaria, senza la quale la vita sarebbe semplicemente impossibile. Cioè già morte. L'ennesimo sfacciato tentativo di raccontare la malattia come metafora dell'esistenza. Soccorso editoriale. Terapia narrativa.
Medicine, ospedali, chiacchiere, illusioni, la riscoperta delle piccole cose. L'amore e il lavoro. La missione. Ancora il morire. Bene. O malamente. Comunque morire, prima di essere clinicamente morti. Soffrire nel pensiero prima che nel corpo. E poi ringraziare. Se stessi. La propria forza. Il proprio esibizionismo.
Non c'è pudore da parte dell'autore. Ancora meno da parte del lettore. Ma non c'è neppure liberazione dai vincoli dei falsi valori e delle coercizioni mentali. Ovviamente si rimpiange il lieto fine. Si aggiunge ghiaccio secco per dare alla realtà la fermezza di una fotografia, quell'aria di decadente caricatura e di lontanissima dolcezza che caratterizza certe scene immobili e sacre, da esequie. Come si fa con i cadaveri. E la vicenda... la vicenda è una tragedia senza scandalo e catarsi. L'insulsa e assurda storia di una possibilità concreta, la velleitaria pretesa di universalizzare la più sciatta realizzazione emotiva di un dolore. Debole struttura di vane incongruenze, nei più vieti e consueti moduli del racconto di strazio e morbosa e malsana e tarata e moralistica speranza.
La letteratura ha già detto tutto in merito. Con Thomas Mann, con Camus, con Manzoni e soprattutto con La morte di Ivan Ilich. Tutto il resto è presuntuosa e illegittima pornografia. Compreso Mentre morivo. Ma, così vanno le cose. L'autore si fa spiare. Esibisce il dolore, sporcandolo con tutte le sovrastrutture possibili. Chi imita chi? È la letteratura a interpretare la vita o viceversa. Forse la poetica di Maria De Filippi ha avuto davvero la meglio. Devono, possono, vogliono, essere tutti malati. Tutti orfani. Vedovi. Mutilati. Disabili. Condannati a morte. Perché la vita si rivela nel dolore. Senza filtri. O con studiati filtri di distorsione analogica. Tempi brevi. Senza rispetto, scanditi da sacrosante pause.
La scrittura deve essere spudorata. Senza pietas. E insieme lieve, confortante e commossa. Ironicamente indisposta. E questo fa male ai lettori. Fa male allo spirito dell'epoca. Fa male allo stesso male. E ci si perde in un nulla insondabile. Una sorta. Tutto è una sorta. Il raccontare ciò che non dovrebbe mai essere raccontato. Perché così è troppo facile commuovere e sedurre l'essere umano. Perché così non si racconta niente. Perché è un argomento disonesto, scortese, verso se stessi e gli altri, rivelare la propria sofferenza. Lo possono fare i mendicanti. Ma con un orgoglio e una professionalità differente. Non gli scrittori. Quanti libri si scrivono oggi su malattie terminali, lutti e tragedie... Non è ancora abbastanza?
Piovono detriti di commozione.
L'autore è stato gravemente malato. Affetto da un morbo raro, incurabile, devastante. Poi è guarito. Il suo Vampiro in pigiama, best seller in Francia e ora pubblicato in Italia da Feltrinelli, parla dello strazio soggettivo e universale di chi affronta un male del genere, si dica pure "un genere di male". Un resoconto della sofferenza quotidiana, della rinuncia, del terrore, degli incubi, delle remore, dell'isolamento, delle reazioni e della tenacia premiata dall'ingratitudine o dalla fortuna. Giudichiamolo come un libro in parte surreale, in parte feticistico, sulla prepotenza della speranza. Un apparire attivo che costituisce una mediazione o una funzione necessaria, senza la quale la vita sarebbe semplicemente impossibile. Cioè già morte. L'ennesimo sfacciato tentativo di raccontare la malattia come metafora dell'esistenza. Soccorso editoriale. Terapia narrativa.
Medicine, ospedali, chiacchiere, illusioni, la riscoperta delle piccole cose. L'amore e il lavoro. La missione. Ancora il morire. Bene. O malamente. Comunque morire, prima di essere clinicamente morti. Soffrire nel pensiero prima che nel corpo. E poi ringraziare. Se stessi. La propria forza. Il proprio esibizionismo.
Non c'è pudore da parte dell'autore. Ancora meno da parte del lettore. Ma non c'è neppure liberazione dai vincoli dei falsi valori e delle coercizioni mentali. Ovviamente si rimpiange il lieto fine. Si aggiunge ghiaccio secco per dare alla realtà la fermezza di una fotografia, quell'aria di decadente caricatura e di lontanissima dolcezza che caratterizza certe scene immobili e sacre, da esequie. Come si fa con i cadaveri. E la vicenda... la vicenda è una tragedia senza scandalo e catarsi. L'insulsa e assurda storia di una possibilità concreta, la velleitaria pretesa di universalizzare la più sciatta realizzazione emotiva di un dolore. Debole struttura di vane incongruenze, nei più vieti e consueti moduli del racconto di strazio e morbosa e malsana e tarata e moralistica speranza.
La letteratura ha già detto tutto in merito. Con Thomas Mann, con Camus, con Manzoni e soprattutto con La morte di Ivan Ilich. Tutto il resto è presuntuosa e illegittima pornografia. Compreso Mentre morivo. Ma, così vanno le cose. L'autore si fa spiare. Esibisce il dolore, sporcandolo con tutte le sovrastrutture possibili. Chi imita chi? È la letteratura a interpretare la vita o viceversa. Forse la poetica di Maria De Filippi ha avuto davvero la meglio. Devono, possono, vogliono, essere tutti malati. Tutti orfani. Vedovi. Mutilati. Disabili. Condannati a morte. Perché la vita si rivela nel dolore. Senza filtri. O con studiati filtri di distorsione analogica. Tempi brevi. Senza rispetto, scanditi da sacrosante pause.
La scrittura deve essere spudorata. Senza pietas. E insieme lieve, confortante e commossa. Ironicamente indisposta. E questo fa male ai lettori. Fa male allo spirito dell'epoca. Fa male allo stesso male. E ci si perde in un nulla insondabile. Una sorta. Tutto è una sorta. Il raccontare ciò che non dovrebbe mai essere raccontato. Perché così è troppo facile commuovere e sedurre l'essere umano. Perché così non si racconta niente. Perché è un argomento disonesto, scortese, verso se stessi e gli altri, rivelare la propria sofferenza. Lo possono fare i mendicanti. Ma con un orgoglio e una professionalità differente. Non gli scrittori. Quanti libri si scrivono oggi su malattie terminali, lutti e tragedie... Non è ancora abbastanza?
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