La Nave di Teseo sta per ripubblicare tutti i romanzi di Andrea De Carlo. Autore assai amato negli anni '80 (dalla critica) e negli anni '90 (dagli adolescenti), poi spernacchiato a destra e manca, apostrofato come bollito, presuntuoso, narciso, avido, venduto, svenduto, commercialissimo e fuori fuoco, indicato come prototipo dell'autore mercenario e disonesto. A un certo punto girava pure questa offesa gravissima: De Carlo è il padre morale, stilistico e concettuale della narrazione di Fabio Volo. Eh, proprio in base a questi presupposti l'unico giudizio possibile assomiglia a una massa polverulenta di piccole e screditanti condanne, perché sappiamo bene che certe infamie non possono mai nascere così dal niente, per pura cattiveria, e infatti Volo può senza imbarazzi definirsi discepolo di De Carlo. Ovviamente tale dichiarazione non implica il sospetto di un legame biunivoco. E a ogni modo le colpe dei figli non dovrebbero mai ricadere sui padri. Neppure sui padri antipatici. Ciò comunque poco importa: si rischia di scadere nelle omeomerie. Oltre tutti i pigri pareri di circostanza e di simpatia emotiva, De Carlo è un autore vero, o lo è stato, prima di impigrirsi e di scoprire tutti i vantaggi e gli agi della maniera. Magari è stato agevolato nella sua ascesa dalle giuste conoscenze. Ma questo cosa vuol dire? Einaudi pubblicò il suo primo romanzo con l'apprezzamento e l'interessamento di Calvino, quando per i ventenni\trentenni la via letteraria era preclusa a prescindere, come il senato per gli antichi romani. E Calvino non era ancora un rimbambito, all'epoca. De Carlo evidentemente riuscì a conquistarlo con la sua prosa che suonava davvero giovane, diversa, ispirata... per molti versi già proiettata oltre i limiti stagnanti e melmosi del gusto italiano. De Carlo, fa specie ammetterlo solo ora, partì come minimalista già maturo e postmodernista già critico, e sviluppò una tecnica narrativa immediatamente empatica e visiva. Era diretto, pulito, intelligente, mai presuntuoso o lezioso. Quasi pop e quasi radical. Il suo Treno di panna del 1982 fu un piccolo capolavoro? Non so fino a che punto. Ma di sicuro rappresentò una cesura, un nuovo inizio per l'arte italiana del raccontare. Una via stimolante per congiungere intrattenimento ed espressione culturale, sentimento e critica sentimentale. Letteratura di immagini, di scene, di pose.
Questa formula divenne arma letale con Uccelli da gabbia o da voliera. Un romanzo che avrebbe potuto vivere benissimo da sceneggiatura. A quell'epoca per uno come De Carlo doveva essere davvero figo poter essere uno come De Carlo: uno scrittore originale ma già classico, un'icona culturale, un amico dei grandi e vecchi letterati e dei grandi e vecchi cineasti (Fellini, con il quale poi litigò a morte dopo il viaggio in America Latina per la preparazione di un film su Carlos Castaneda). Un artista, che quando gli gira si converte in musicista, pittore, regista o fotografo. Uno con il portafoglio pieno, che piace alle donne e che i fan venerano come un guru. Uno che scrive un libro da milioni di copie in tre mesi.
Il passaggio a Bompiani Mondadori non fu una cosa tanto buona. Macno e Yucatan furono due passi falsi, il primo per eccesso di stilizzazione, il secondo per un tentativo errato di conciliazione sperimentale e commerciale. A me, per esempio, Yucatan non dispiace, ma capisco perché non ottenne il successo sperato (era il libro collegato al film in progetto con Fellini, e Fellini si incazzò a morte, perché non voleva che fosse pubblicato). Così l'autore dovette mettersi sotto e inventarsi un'altra strada, quella che portava al successo generazionale: Due di due, un'epopea sessantottottina, tanto sincera, profonda, innamorata e commovente in supeficie, quanto macchinosa, sleale, machiavellica e distaccata in profondità. Roba di cuore, di sentimenti sublimati, che si impongono sulle immagini, sulle velocità e sulla plasticità delle scene. Una storia di per sé comune e formidabile, una scrittura affilatissima, toccante, popolare. Era il 1989. E questo fu l'apice commerciale e stilistico di De Carlo, e in un certo senso la sua fine critica e creativa. Vennero altri libri decenti, Uto, Di noi tre, che somigliano inesorabilmente a riproposizioni stanche del vecchio canovaccio impostato con il confronto umano e generazionale improntato con Due di due.
Sono tutte storie vecchie. Argomenti, temi, prospettive e ragioni che non c'entrano niente con l'attualità editoriale, con lo stato dell'arte della società, con l'animo dei lettori e l'animo dello scrittore. Ora De Carlo è stanco della scrittura e noi tutti siamo stanchi di De Carlo. Lui continua però a scrivere e noi abbiamo smesso di leggerlo. Quale migliore momento per riscoprirlo?
Dico che bisogna ricercare nella sua vasta produzione le pagine che valgono e debbono essere recuperate. Ce ne sono. Ed è un peccato lasciarle in mano al pubblico greve. E a Fabio Volo. De Carlo era uno di un certo livello. Voi lo spernacchiate. Ma sapete benissimo che è meglio di quanto pensiate e ammettiate. Vi dà fastidio che scriva spudoratamente per vendere? Lo ha sempre fatto, fin da giovane. Prima gli veniva con più grazia, ora fa più fatica a mascherare lo squallore. Ma il senso puro è quello. E non c'è nulla di scandaloso. Lo scandalo è nel gretto e prevedibile giudizio comune. Nelle medie delle mode letterarie.
Tutti invecchiano. Tutti da giovani erano meglio. Solo quelli che hanno iniziato a farsi vedere o a farsi leggere a cinquant'anni possono dire che in vecchiaia sono migliorati.
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