Cazzo, è morto Luciano Gallino

Luciano Gallino aveva ottant'anni. Un vegliardo. Lui aveva cominciato a praticare (giudichiamo la materia con serietà, come una pratica) la sociologia nell'Olivetti di Ivrea negli anni '60. Poi era passato alla docenza universitaria. Ma diceva di non aver mai dimenticato la fabbrica, i rapporti umani (che sono risorse e hanno a che fare con l'umanità, ma non vanno confusi con le risorse umane), i disagi delle classi umili e lo schifo della fatica operaia. Quasi quasi voleva farci credere di averne nostalgia. Come no... Scriveva trattati specialistici intrisi di radicalismo intellettuale. Parlava di rivoluzione pratica e morale, concentrandosi su cose veramente ovvie, tipo gli orari di lavoro, il peso del denaro contante, l'informatizzazione, il ricatto dell'illusione, l'importanza della formazione, il ruolo dei sindacati e il salario garantito. Ovvie, sì, ma pure reali, tangibili. Oltre ogni tipo di rancorosa critica. In realtà, il nostro caro Gallino discuteva continuamente di inalienabilità del lavoro. Non era un marxista puro, ma sapeva che ogni crisi dipende sempre dallo squilibrio tra ciò che si fa e quanto si riceve. Sapeva che la finanza avrebbe devastato il vecchio capitalismo. E non ne sorrideva. Sapeva che l'illusione di democrazia avrebbe presto ceduto e che l'automazione non era il vero problema del lavoratore. Criticava il distacco culturale dell'uomo contemporaneo dai propri diritti e dalla propria dignità. Diceva di credere nell'innovazione e nella permeabilità sociale del capitale. Il suo La Lotta di classe dopo la lotta di classe è un classico della sociologia democratica e illuminata europea. Cioè di quei quattro illusi che cercano ancora di resistere all'accelerazionismo positivo del supercapitale finanziario globale e ai nuovi fascismi e populismi premiati dal demos.

Disse in tempi non sospetti che in Italia era in corso un colpo di Stato da parte di banche e faccendiri. Osteggiava il neoliberismo e il rigorismo europeo. Scriveva libri diretti a tutti: studenti, lavoratori, imprenditori, politici e intellettuali. Usava frasi brevi e precise. Non si crogiolava con numeri e statistiche. Spiegava e argomentava secondo coscienza ed esperienza umana.

Sarà finalmente ascoltato? Sarà recuperato come autorevole fronte di razionalizzazione di fronte alla pochezza di distopie, escapismi e accelerazionismi tragicomici?

Probabile che venga ripubblicato qualche suo libro. Ma chi sarà così sottile da cogliere l'occasione? Speriamo di no. Perché verrebbe frainteso e strumentalizzato.

Morto Gallino, rimane Ferrarotti, che ormai ha perso la lucidità e si è trincerato, come fanno molti anziani, nei ricordi contadini dell'infanzia. Senza Gallino la sociologia italiana è morta. MORTA.

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