Campiello 2017, L'arminuta e Antonio Razzi che è meglio di Dante e della Maraini



La dottoressa Donatella Di Pietrantonio è la vincitrice del cinquantacinquesimo premio Campiello con L'arminuta. Testo breve e ben costruito dal punto di vista lessicale, con espressioni ricercate e appuntite, quindi di facile soddisfazione e mediobassa lettura e di semplice intenzione, perché profondamente femminile e scontatamente estetizzabile, profondamente succube dell'ideale ottocentesco di letteratura supersentimentale e scontatamente poetico, pauperisticamente ideologico. Lo spazio che si racconta, che viene evocato e rappresentato è teatrale, tragichino e nostalgico, pur aprendosi in spazi e per spazi vari e opposti. Con la bambina che scopre nel peggiore dei modi, il più stupido, il più insignificante, di essere stata adottata, dopo un viaggio, la sua catabasi, alla ricerca delle origini, l'incontro e lo scontro con una realtà chiusa e ostile (povero popolo abruzzese!) e la scoperta della verità e dell'amore più puro, tramite la figura della sorellina Adriana, un'Anna Magnani in miniatura, che farà esclamare "oh, poverina!", "oh, che cuore coraggioso!" a tutte le lettrici intellettualmente ed emotivamente disagiate. Heidi 2.0: dalla città al luogo rurale.

Qui, amici miei, amici cari, il processo senza accusa di crescita interiore progetta con cinismo tutti i molteplici strazianti contrasti indispensabili alla fabula, poi dolcemente risolti a margine interno dell'intreccio, e disegna a occhi chiusi le marcate ombre per i simboli umani che vengono schiaffati a forza in quel personaggio o in quell'altro, secondo un gusto moralista da romanzetto rosa e un fine psicologicamente ingenuo e forse troppo pericoloso. Pure l'immancabile finale commovente appare a fuoco, ben concertato. Arriva quando deve e mette un punto chiaro, definito. Eppure è da criticare, perché aspira (nel senso meccanico) quel misero senso di reale e verosimile che aveva impolverato parte della narrazione.

Il passato, il contesto storico-geografico e i personaggi topici sono caricaturali e biecamente strumentali. Si parla in dialetto e si citano dettagli contestualmente pertinenti, ma l'atmosfera è tutta falsata e predisposta come uno scenario da fiaba passionale, per un pubblico da CasaLettori. Le dicotomie tematiche su cui si muove il libro (cultura contemporanea contro cultura rurale, ricchezza contro miseria, istruzione contro ignoranza, libertà contro tradizione, comunicazione contro silenzio) sanno di retrivo e di retorico. La femminilità stessa appare mortificata in un eterno stereotipo travestito alla meno peggio da richiamo ancestrale. La prosa secca, tragica e melodrammatica è semplice per astuzia, non per senso. Al Campiello i trecento lettori e poi i giurati di qualità hanno come al solito badato a quanto la semplicità di un libro potesse tollerare un'ombra o una parvenza di raffinatezza culturale o di ricerca letteraria e a quanta qualità letteraria si potesse poi pretendere o suggerire in un'assensa confusa o non consapevole della forma. La Di Pietrantonio con questo libro si è dimostrata una maestra di obnubilazione. Maestrina di commovente e sorprendente tragichino.

Quanto avrei voluto che un libro del genere fosse scritto nella lingua e con la psicologia di un vero provinciale. Di un fiero prodotto della frattura sociale italiana. Ci sarebbe voluta la lingua del senatore Antonio Razzi. Allora sì che si ritornava davvaro a qualcosa di encomiabile, di letterario, di profondo e sentimentale.

Razzi è un buon prototipo, in tutti i sensi, ed è un esteta, un sistematore linguistico con un'idea specifica e cosciente sul senso ermeneutico del proprio comunicare. Proprio qualche giorno fa lo abbiamo sentire dibattere con Dacia Maraini in un confronto a distanza curato da David Parenzo (poi postato dal Corriere della Sera). La Maraini che non è una scema, lo ha elogiato immediatamente. "Razzi ha molte qualità, tra cui la bonomia, la sua capacità di non aggredire e di non insultare mai l’interlocutore", ha detto la divina. E allora Razzi ha sorriso, in piena coerenza, e ha ricambiato dicendo: "Dacia Maraino è una grante, grantissima scrittrice, anche se non ho mai letto un suo libro, ma solo perché c'è mancanza di tempo. E chi lo sa, magari saprei scrivere come la Maraino se posso studiare". A quel punto, Parenzo ha sottolineato con garbo l'errore con il congiuntivo, ma Razzi non si è minimamente scomposto: "È vero, non sono ai livelli della Maraino, ma questo è il mio italiano. Voi oggi parlate la lingua di Dante, se io nascevo prima di Dante, parlavate la lingua di Razzi".

E da qualche parte, davvero si parla la lingua di Razzi. Che non dovrebbe interessarci in senso mimetico o comico, ma come fenomeno puro e strumento comunicativo adatto alla realtà. Se davvero e ancora ci interessa la realtà. Con i suoi mille dettagli inutili e le parole infinite che sostituiscono il racconto nell'eterno, falso dialogo.


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