L'eterno agio della classe disagiata


Il Sessantotto è passato, da cinquant'anni. Ma siamo ancora tutti lì, fermi e annoiati su quel punto e virgola. Comodi sulla scomoda tazza del gabinetto, aspettando la liberazione. O la liberazione dalla liberazione. Qualcuno ancora perde tempo e si nasconde dai propri doveri, anche se la vita che va avanti, che deve andare avanti, ribolle dallo stomaco e impone alle gambe di mettersi in marcia. Intanto il senso del vero visita un nuovo sito porno e commenta i tweet di Nina Moric, giusto per conservare l'a priori dell'esperienza, per star chiuso altri due minuti in bagno. Un dottore direbbe che questa povera vita non si è ancora purificata dalle scorie di quell'intossicazione. E che c'è un motivo: in quel tempo, cioè nel Sessantotto, le illusioni più velleitarie e ingiustificabili vennero fraintese come diagnosi, come categorie interpretative dell'esistenza sociale e psichica, come scuse, rendendo privato e sentimentale ciò che doveva riguardare solo gli Stati, i popoli, le classi. Si è insomma attribuita una potenza all'impotenza, una volontà a chi la volontà non poteva e non doveva praticarla. L'essere umano, poveraccio, s'illude facilmente, ci spera sempre, perché ha vissuto sempre nel disagio. E per questo, solo per questo, si è evoluto. Per questo non si è estinto. Quasi per caso, dunque, con il progresso scientifico, il nuovo senso di proporzione, sono arrivati i positivismi, i socialismi, i nuovi umanesimi, tutti sistemi di pensiero che giustificavano le vecchie illusioni come diritti. Ma ogni volta, la storia ha saputo spiegare all'uomo che queste cose erano solo stronzate, sogni per gente annoiata, pretesti per arrivare, farsi notare, al massimo espedienti logici per recriminare. Niente di serio. Ma nel Sessantotto la presunzione delle velleità politiche, sociali, artistiche e intellettuali ha assunto la forma di un male infettivo che si è diffuso come ideologia semplificata attraverso la moda, come maschera di identità per giovani illusissimi, ingenui o furbissimi. E questa maschera è ancora sui nostri volti. Ed è orribile. È la maschera dello sforzo dello stitico, del disagio ingiustificato, della superficialità artistoide. Ma diciamolo: il Sessantotto è un falso mito e le colpe del Sessantotto non sono colpe. Quella stagionr non ha prodotto che apparenze, ombre di pensieri stupidi già pensati duemila volte al giorno in duemila anni di storia. E chi si sforza a pensare lo sforzo vuoto, a spiegarlo attraverso i concetti di produzione e sforzo, può solo criticare l'agio che sa giustificare le pretese dei disagiati, cioè asciugare l'aria fritta e fetente.

Su minimum fax è uscito un saggio intitolato Teoria della classe disagiata, a firma del giovane filosofo Raffaele Alberto Ventura. Un testo assai stratificato, simile a un tessuto traspirante di analisi, satira, riflessione e comparazione che tratta le ingannevoli pretese della generazione post-sessantottina, o del nuovo e già vecchio millennio, riguardo alla libertà, alla dignità di essere e al diritto di apparire come volontà intellettuali, artistiche e critiche. Consumatori totali, che si sforzano in cose e per cose che il mondo disprezza. Si cita Keynes, Goldoni, l'accelerazionismo, Marx, il trash, il pop, la scuola di Francoforte. Si riprende l'antichissimo discorso dell'accumulazione. Si critica l'abbaglio socialista rivendicando la potenza e il senso del capitalismo. Si rimpiange la volizione che dovrebbe essere azione, produzione, calcolo e riconoscimento, nell'ottica di un capitalismo facile e prevedibile e previsto, dove il dover essere è libertà. Si danno consigli di vita pratica, tipo "trovatevi un lavoro vero, andate a rubare". Si sussurra alla coscienza per la saltezza della coscienza. Si critica Marx per esaltare un fraintendimento di Marx. Si dice che il lavoro intellettuale è una falsa promessa e che i giovani intellettuali di oggi sono costretti a soffrire, a essere sfruttati e non riconosciuti, perché lo vogliono, perché sono costretti a volerlo. E io a questo punto potrei già bestemmiare San Paolo e Wittgenstein. Potrei già gridare cose a caso tipo "E quando mai nel corso della storia il lavoro intellettuale è stato riconosciuto, premiato e non sfruttato? Ma che scemenza è? Leopardi campava con la paghetta del padre. Terenzio era uno schiavo. Le categorie di critica e anticritica usate per descrivere questa classe disagiata sono vecchie di duecento anni. L'autore non capisce nulla di economia. Il suo elogio del fallimento è ascetismo di serie C. Provoca senza provocare. Assolutizza il particolare come la vittima assolutizza e allontana la propria pavidità. Giustifica il capitalismo come ultima e triste possibilità di critica da sinistra della sinistra. Il suo stile è insopportabile e settario. Una generalizzazione autoreferenziale per lamentosi e schizzinosi amanti dell'agio complicato e del disagio illuminato. L'autore chi è? Un furbetto. Un hipster che sfotte gli hipster, un invidioso che improvvisa il rancore, che guarda senza capire l'equilibrio, che si finge indifferente e che si allontana solo per sbaglio dal nulla, dal potere che non può intuire. E perché? Solo per divinizzare e poi smascherare il disagio, che è una squallida testimonianza di intelligenza...", ma non grido. Perché non sono un disagiato. Me ne fotto e dimentico. Odio il Sessantotto e chi dà la colpa al Sessantotto per il lassismo del presente. Ho la mia libertà, di cui non me ne faccio niente. Mi escludo dalla vita attiva senza dietrologia e senza ideologia. Non smetto di pensare, dimenticare, nascondermi. Non vado a puttane, ma non perché sono sfruttate. Io consumo quello che posso e voglio consumare. Finché non mi consumo. E secondo una ragione più alta. Scrivo per scrivere per niente. Lo faccio senza volerlo. Perché lo voglio. Sforzandomi potrei fare o fallire. Comunque farei. E faccio pure senza fare. Così come s'illude chi non crede di illudersi.

Si discuterà molto e per niente di questo libro. Può essere un bene. Non per l'argomento in sé, ma per dare spazio a filosofi come Ventura, a una nuova visione di approfondimento, leggermente più coinvolta e coraggiosa.


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