Anche la morte ascolta il jazz. Intervista a Valeria Biuso


Un romanzo di atmosfera e riflessioni, ambientato in America alla fine degli anni Quaranta. C'è questo tizio, uno scrittore che prima ancora d'esordire si sente già un fallito. S'imbuca nei locali dei neri per ascoltare il jazz di Charlie Parker, scrive recensioni per il Partisan Review, frequenta invasati buddisti e tossicodipendenti, cerca di raccontare la città, New York, al di là degli stereotipi e delle mode, e dà titoli alle persone e alle situazioni con cui ha a che fare. Le cose succedono di notte. Lo scrittore incontra spesso un altro tizio, tutto vestito di nero, ben agghindato, con i guanti, il bocchino, l'ombrello, il sorriso sicuro di chi ha capito tutto della vita. Di solito vanno a cena in ristoranti di classe o si fermano a chiacchierare fuori dai locali malfamati di Harlem, discutono di metempsicosi e di arte. Di realtà. Di esoterismo. E di destino. In pratica si viene a scorprire, senza troppa sorpresa, che questo elegantone, che si era presentato come un vecchio zio assicuratore, è la Morte, il Grande Mietitore. E cosa vuole la Morte da un giovane scrittore senza arte né parte? Valeria Biuso in Anche la morte ascolta il jazz, suo romanzo d'esordio su Ianieri Edizioni, non pare interessata ad approfondire l'aspetto mistico e horror della questione. Si concentra di più sulla ricostruzione storica e ambientale, sull'indagine psicologica e sulla critica morale di questi giovani perennemente insoddisfatti e tormentati e anche così pretenziosi che per la prima volta si affacciano con esigenze e coscienza del proprio disagio nella società. Prima volta relativa: sono sempre esistiti velleitari del genere, e ne parlavamo già a proposito della Teoria della classe disagiata. Nel mondo il perdente sognatore e presuntuso è una costante, dai poeti novi amici di Catullo ai cavalieri erranti, dalla boheme parigina ai circoli letterari surrealisti. Ma questi qui, questi ragazzi bianchi newyorkesi che sognano la rivoluzione interiore, che amano il jazz furioso suonato dagli afroamericani ancora trattati da schiavi, che vorrebbero cambiare il mondo ma che non hanno idea da dove iniziare, sono i primi esponenti di un disagio integrato, riconosciuto e sfruttato dalla società. Referenti di una moda. Consumatori critici, artisti in cerca di riconoscimento, rivoluzionari onirici, pubblico che acquisterà un disco, una giacca, un libro, questa roba qui. Hipster si chiamavano e hipster li chiamiamo ancora, con un'accezione leggermente differente.
Non c'è dramma dell'orrore e malsana passionalità, ma mi piace la prosa e mi piacciono anche i dialoghi. Mi piace il coraggio di integrare elementi da letteratura di genere in un piano più letterario ed esistenziale. Potremmo presentarlo come un libro da far leggere ai più giovani. Agli hipster che si riconoscono hipster. A picciotti che campano di contenuti sbirciati in 1334x750 pixel su Youtube e Tumblr. Perché giovane è l'autrice. E vecchi siamo noi che presentiamo. E viene quasi spontaneo chiedersi come mai a una figlia del nuovo millennio venga in mente di raccontare una storia del genere, con quei riferimenti, quella musica, quel tormento. Chiediamo. Poi non se ne parli mai più di hipster e morte. Siamo superstiziosi e c'infastidisce ricordare quanto siamo passati di moda.

 
1. Anche la morte ascolta il jazz parla di hipster, giovani bianchi che alla fine degli anni Quaranta in America rifiutavano lo stereotipo sociale e culturale mainstream e che guardavano con unidirezionale simpatia alla rivolta stilistica del be-bop e dei musicisti neri. Oggi definiamo hipster quei modaioli con pretese artistiche che sviliscono la controcultura in qualcosa di molto superficiale e apparente, gente completamente integrata nel sistema consumistico. Credi che questa evoluzione sia qualcosa di naturale o che vada interpretata come un tradimento degli ideali di partenza? 

Ecco, è doveroso un distinguo: quando accenno alla componente di controcultura hipster presente nel romanzo, in genere le reazioni oscillano tra il “ce n’era davvero bisogno?” e il “ma che davvero?”. L’hipster contemporaneo si fa crescere un bel barbone, i baffi a manubrio, è tartan e papillon, Mac – tutto ciò grazie ai soldi del papi, ovviamente –  una posa sullo sgabello di Starbucks che fissa lo schermo bianco, in attesa di una musa che non arriverà mai, perché non è un segreto che alle muse il caffè piace solo ristretto. Quindi, siamo ben lontani dalla figura filosoficamente psicopatica del “white negro” dipintaci da Mailer alla fine degli anni Cinquanta. Più che di un’evoluzione, credo si debba parlare di naturale decadimento d’intenti, una necessaria appendice malata di una società di specchi, paralleli tra loro, che si riflettono all’infinito scavando un tunnel nel vuoto. Contro chi dovrebbero ribellarsi gli hipster moderni, a cosa dovrebbero aspirare e, soprattutto, a chi mai vorranno assomigliare se non all’immagine patinata e falsamente trasgressiva di sé?


2. Il protagonista del romanzo è un recensore che lavora al Partisan Review, una rivista storica dell'underground letterario americano, politicamente attiva e molto di sinistra. Come mai hai scelto di inserire questo riferimento storico nel tuo lavoro? Come ti sei avvicinata a questa particolare e poco nota realtà editoriale?

Avevo sentito parlare della rivista per via delle recensioni e articoli firmati da autori noti, come Orwell o Eliot, ma è stato grazie al mio preparatissimo editor, Giuseppe Franza, che, avendomi suggerito di ampliarne i dettagli nel testo, ho avuto modo di conoscerla davvero. Trattandosi di un periodico di prerogativa anticonformista, attento alle voci emergenti, è per sua natura legato al milieu intellettuale più prossimo al protagonista. Mi è parso allora interessante introdurre un binomio composto da un certo tipo di realtà editoriale e dalle aspirazioni letterarie dell’epoca attraverso l’esperienza diretta di Will, che di certo s’inserisce tra le pieghe più controverse di una società in bilico tra le tensioni politiche del dopoguerra e gli slanci rivoluzionari destinati a esplodere nel decennio successivo. Nello sviluppo del romanzo, l’attenzione verso una ricostruzione storica quanto più ficcante è stata una delle mie priorità, di conseguenza il PR è divenuto una diretta esigenza circostanziale, atta anche a fare luce su un mondo giornalistico di grande valore, ma scarsamente conosciuto.


 3. Uno dei personaggi più belli del tuo testo è la Morte. Un assicuratore elegante e appassionato di jazz che parla di filosofia, psicologia ed esoterismo. Ti sei ispirata a qualche modello in particolare per costruire questa figura? Avevi qualcuno in mente? 

La prima persona a cui ho dato in lettura il romanzo ha descritto il personaggio come “Grillo Parlante con un twist macabro” e tuttora mi sembra una delle definizioni più azzeccate. Nel tratteggiare la Morte non avevo in mente una figura precisa o un concetto particolare da rispettare alla lettera. Ho attinto al repertorio artistico del grottesco, horror e occulto a cui sono legata, il tutto rielaborato in chiave dandista e con un tocco di urbanismo flâneur. Insomma, un po’ come se Wilde fosse un personaggio di una pièce teatrale del Grand Guignol e l’illustrazione della locandina venisse affidata a Redon.


4. 
Ci sono tantissimi libri che raccontano il fallimento delle velleità culturali, da Ritratto di giovane artista di James Joyce in poi. Il tuo protagonista, uno scrittore fallito, viene punito con la morte. Volevi forse lanciare un invito agli aspiranti scrittori del tipo "ammazzate le vostre pretese artistiche"? Se è così ti supportiamo in pieno! Se così non è: qual è il senso recondito che possiamo o dobbiamo collegare alla tua storia?

Non esattamente! Per il protagonista non si tratta di punizione, ma di stimolo, di sfida, quasi come avesse un’invisibile spada di Damocle perennemente sul capo. Non a caso, sarà soltanto dopo aver messo un punto al romanzo che Will sentirà bussare alla porta… Di base, c’è un leitmotiv nascosto tra le righe del testo che strizza l’occhio alla concezione, un po’ satirica e un po’ annichilente, della morte come unica foriera di agnizione intellettuale e termine ultimo del processo creativo. Mi piacerebbe dire che si tratta di una moda tutta odierna, ma mentirei. Come Lovecraft e Poe, pure la Dickinson, Kafka e troppi altri ancora, ci hanno insegnato, la parola “postumo” diventa alle volte parte del riconoscimento artistico. Quindi sì, dipende un po’ dalle velleità dell’aspirante scrittore contemporaneo: o decide di ammazzare la sua opera, ostracizzandone gli archetipi già piallati dal contorno storico attuale e riducendosi così a poco più di un amanuense in cerca di fuochi fatui, oppure, nel caso in cui fosse talmente disperato da rimanere fedele alle proprie idee letterarie, può sempre optare per una cena con Noah, ricchissima di promesse, anche se piuttosto vaga sui risultati. Io ho già messo il cappotto.

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