Nobel a Saviano


Si è detto in tutti i modi possibili che il Nobel è un premio particolare, cioè parziale ma con pretese o effetti di universalità. Questo vuol dire che il Nobel ha una sua chiara, giustificabile connotazione, espressa ogni volta attraverso mortifere e precise motivazioni. Una ragione in sé rispettosa delle volontà testamentaria del fondatore Alfred Nobel (che era un inventore, un amante della fisica, della chimica, della medicina, della letteratura e della pace...). Ci siamo arrivati tutti, no? Se è così, il fatto che questa pretesa di senso portata avanti dal concesso svedese, in sé abbastanza elementare e condivisibile, venga ogni cazzo di anno fraintesa e criticata da intellettuali, ricercatori idioti e lettori cacacazzi significa un'unica cosa: i critici sono limitati dalla pigrizia mentale più infame, quella del pubblico brutale che si sente padrone.

Che il premio sia intitolato nella sua forma più alta "alla Pace" o "per la Pace" vorrà pur dire qualcosa. Ma cosa? Niente in realtà. Un niente ordinato, preciso e definito, un niente con la giacca, la cravatta e la coscienza quasi pulita. Un niente in cui c'è un centro marcato con un puntino rosso e una struttura d'intenti. Quindi non è che gli accademici del Nobel pretendano di riconoscere e premiare il miglior fisico, il miglior medico, il miglior scrittore del mondo. Non ci pensano proprio. Tanto per dire, il nobel per la chimica di quest'anno è andato agli studi di Dubochet, Frank e Henderson sulla microspia crioelettrica, una cosa di trent'anni fa. Questo perché le scoperte scientifiche spesso rivelano la loro utilità e correttezza dopo decenni di tentativi e dibattiti. Pure Einstein dovette aspettare un sacco di tempo. Poi c'è un'altra cosa fondamentale. Il benedetto premio è un riconoscimento, diciamo così, politico, con una tenue e contraddittoria connotazione identitaria, culturale e ideologica. Attraverso il premio si cerca di lanciare un messaggio al mondo, di gettare luce su certe storie e certe situazioni. L'approccio comunque punta a mantenere un certo stile, dunque non ha nulla di temerario. Infatti nessuno si accorge subito del valore politico e sociale delle scelte. In letteratura, soprattutto, si vuole ancora credere che il Nobel possa e debba riconoscere e celebrare i mostri sacri, i grandi artisti e i più sensibili artisti della contemporaneità. Ma è più facile che venga investito dell'onereficenza un Roberto Saviano qualsiasi rispetto ai Roth, ai DeLillo e così via. Anzi, un Saviano stesso potrebbe essere già fuori schema, perché troppo tradotto, troppo internazionale, troppo rumoroso. Il nostro caro Roth invece ha zero possibilità. Perché tutti già lo riconoscono come un eroe della cultura, e perché ha tra i suoi estimatori gente di tutti i tipi, tra cui personaggi che non piacciono all'Accademia. O che non dovrebbero piacere all'Accademia. Ci siamo capiti pure qua? DeLillo, zerok possibilità.

Ci sta pure che in ambito letterario, dove non si deve guardare alla funzionalità e all'utilità, il premio debba far discutere, perché le cose intelligenti devono sempre un po' spiazzare. Anche Bob Dylan, il celebre e super pop Dylan, ha spiazzato. La cosa più vecchia, vacua e innocua che c'è al mondo: Bob Dylan. Comunque ci ha spiazzato. E pure quest'anno ha vinto uno che piace e spiazza. Quasi tutti lo conoscono indirettamente (per il film tratto da Quel che resta del giorno, premio Booker nel 1989), qualcuno direttamente. Kazuo Ishiguro, lo scrittore britannico di origine giapponese che ha vinto il premio Nobel per la Letteratura 2017, ha frequentato tanti generi e ha attraversato (si dice così) molte fasi spirituali differenti. Quasi sempre ha raccontato di antieroi, piccole cose che possono essere scambiate per grandi metafore: fragilità, svagatezza, precarietà, memoria preziosa o difettosa, cose fluttuanti, arte e occasioni perdute. Che Kazuo! Sempre in bilico tra mondo interiore ed esteriore, apparenza e sostanza, presente e futuro, realtà e fantasia, miseria e nobiltà, Est e Ovest. Lo chiamano visionario perché ha frequentato anche il fantasy (Il gigante sepolto, un interessante omaggio a Tolkien e alla storia inglese, forse un po' troppo palloso e illuso per farsi cult) e l'apocalittico (Non lasciarmi, una cosa sui cloni). Noi lo odiamo? No. Gli vogliamo quasi bene perché ci fa sbadigliare. Uno scrittore noiosetto, ma che non scassa il cazzo, Kazuo. Quindi è tutto ok. Tutto in struttura da niente, da spiazzo periferico, da piazza poco frequentata ma frequentabile, da Nobel. Ci facciamo capaci e accogliamo il trionfo.

Ma in cuore nostro vogliamo che il Nobel sia dato a Saviano (quelli dell'accademia lo invitarono nel 2008 a tenere un discorso, e gli altri premi nobel fecero un appello per chiedere allo Stato italiano di proteggerlo contro la camorra). Sarebbe una grande cosa per l'Italia: la stessa soddisfazione che avemmo quando vincemmo il mondiale in Germania, cioè quando vincemmo immeritatamente, nel modo più bello, più italiano. Quindi sosteniamo Roberto Saviano per il Nobel. O Bruno Vespa.

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