Politica e confusione ideologica ne La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead


A Colson Whitehead è stato offerto l'infame e conveniente compito di ridefinire il concetto di letteratura americana. Siamo in tempi complicati, gli hanno detto. C'è Trump, c'è il razzismo, la confusione ideologica, tutte queste cose che sai benissimo pure tu. Vorremmo quindi che scrivessi un romanzone popolare, su un capitolo controverso della nostra storia. Fai attenzione, parla al presente del passato, che coniugando al passato il presente ci inguaiamo! Sii incisivo, d'impatto, un po' di denuncia, ma bada a essere inclusivo: ci vuole un libro in cui tutti si riconoscono, una storia semplice, con un po' di thrilling, perché è questo che va di moda. Ce la puoi fare, Colson. Ti abbiamo allevato per questo. Ci vuole una cosa, come si dice, serrata, stringente, caustica. Cambia spesso il registro, non essere noioso. Scrivi, cioè riscrivi, la storia. Metti il dito sporco in una delle ferite del nostro grande Paese, ma non fare l'ebreo, allontanati da Pastorale americana e, cazzo, scordati Herzog.

E Whitehead ha detto sì, lo faccio, che ci vuole! Mi occorre soltanto una trovata... Sai che m'invento? Rivoluziono il ricordo della north rail, la grandissima conquista ingegneristica della Nazione, e racconto di una strada alternativa, un'underground rail, una via di fuga per schiavi. Così si racconta di una famiglia di schiave. La prima schiava, quella che arriva dall'Africa, si chiama Ajarry, vive nella piantagione più schifosa della Georgia e appena ha due minuti di libertà cura un suo pezzetto di terra. Quando muore, la sua terra passa alla figlia Mabel, che è una ragazza taciturna e incattivita. Come gli altri schiavi, passa tutto il giorno a pensare a come scappare. Ci provano in pochi, ma vengono subito riacchiappati, torturati e lasciati morire di dolore come monito per i compagni. Mabel invece ce la fa, scappa veramente, e finisce in una pantomima della propria sofferenza. Lascia nell'inferno sua figlia, Cora (vedi la mitologia, la grande metafora, i topos infiniti). E Cora-Core giustamente s'incazza, viene su ancora più dura di Mabel, anche perché è una di quelle che se la passa peggio in piantagione per colpa delle voglie del padrone pervetito (nessun riferimento all'attualità, il libro viene prima dello scandalo Weinstein). Ma grazie al cielo, la ragazza trova un socio, che la inizia alla ferrovia sotterranea, a una nuova speranza di fuga: un percorso di liberazione, un metodo alternativo, una promessa, quasi una favola, una metaforona armata, una fantasia che è possibilità scenica. Un altro mito, che i lettori italiani eleggono a grande trovata e affascinante ricostruzione emblematica, parastorica e patafisica, mentre in America, per gli americani tutti, bianchi e neri, è solo una storia raccontata già un milione di volte, dai vecchi blues ai Simpsons. Occorre ricordare ai più romantici che il senso del libro non sta nella fuga, nelle tappe attraverso l'America contraddittoria e ancora selvaggia, ma anche umana, ma sempre e comunque divisa. Neppure nel bel finale a sorpresona. Il senso è negli abomini, nella violenza, nelle schifezze che accadono all'inizio del libro (e pure dopo). Tutto lì. Una cosa antica e ancora presente. Su cui, ripetiamolo pure, bisogna sempre insistere e continuare a battere, per un fatto di giustizia, per la dignità di chi ha subito il male e di lo subirà, per rivendicare. Perché non è mai abbastanza, in un senso e nell'altro. Perché le ferite non si sono rimarginate. Sotto e sopra. 


Il senso non sta neppure nella tecnica eclettica e nell'agilità dell'autore. Nella capacità di rendere l'orrore un significato per la dinamica di una storia avvincente, di un'avventura. Il romanzo La ferrovia sotterranea (The Underground Railroad), edito da Sur, è stato ben tradotto (M. Testa) ma presentato male. La questione è più politica che letteraria. Perché letterariamente siamo quaranta passi indietro rispetto a Roth. Perché il grande romanzo americano, per qualità, intensità e preziosità formale, è proprio un'altra cosa. Sì, qui si immagina e si descrive un'alternativa plausibile, e lo si fa per raccontare l'America e gli americani, ma le cose descritte sono già state immaginate da tutti e quelle immaginate sembrano già ben descritte dalla realtà. Il passato che rimbomba nel presente sfiora solo le orecchie interessate. Gli altri ignorano, ridacchiano o sbuffano "che esagerazione". E a questo punto bisogna anche dire che la questione politica è irrisolvibile ed eterna. Che riguarda gli istinti e le contingenze. Bisogna ammettere che forse ha più forza un Tarantino che parla di schiavitù con Django che un premio Pulizer con le treccine che costruisce una nuova epopea nera storicamente pertinente. E quindi forse il punto è che un libro del genere è stato scritto per compiacersi con semplicismo dell'eroismo minimo delle vittime di un paradosso irrisolto, in una complicazione di una verità semplice e assodata, di un male che non ha senso ribadire in un epos senza apportare una nuova analisi o una nuova sfumatura di consapevolezza. Queste sono pagine per un pubblico distratto, per un pubblico non americano. Per gente che queste cose le vive indirettamente, di riflesso. Gente che può immaginare ma non ricordare. Che non ha problemi del genere e non ne vuole avere. Che può godere di certe descrizioni già date e dire "che peccato". Altrimenti è tutto vano. Tutto è vuoto politico, posizione antica e, certo, banale. Perché la coscienza non fa passi indietro. Perché la sfacciata stupidità dei suprematisti e dei trumpisti e dei neonazi non ci obbliga a riconcettualizzare ciò che già sentivamo e capivamo. Tanto i razzisti non ascolteranno. E allora cos'è? Storia della storia? Abusivismo politico? Storia ricostruita senza permessi e senza pianificazione urbanistica. Una cosarella quasi-dotta ma quasi-sempre-asciutta e semplice per gli amici degli amici di Obama, un racconto che fila per far presente (nel passato) un filo della forma di razzismo in un certo senso lasciato scorrere troppo velocemente, e quindi allontanato e allentato, mitizzato e forse spostato, semi-risolto, nella catarsi della tragedia. Il razzismo è un male gigante, un mostro in movimento. Qui è impagliato. Ideologicamente sicuro, quando è sempre e solo confuso. La sua forza sta proprio in quello, nella confusione.

E la letteratura americana: l'unico fondamentale elemento reale che ci consente, ancora dopo duecentocinquant'anni, di separare la letteratura di lingua inglese europea dalla letteratura americana sta nelle particolari condizioni sociali, storiche ed etniche in cui gli autori sono vissuti e si sono espressi. La letteratura americana parla da sempre di uomini alla ricerca di identità, di reietti, di concretezza, storie vere o verosimili di vita vissuta, drammi di sofferenza e di differenza. Whitehead riporta però l'analisi a uno stadio di rivelazione quasi primitivo, e sembra guardare le cose della storia americana con lo sguardo dogmatico del non americano. Quando è proprio la non dogmaticità una delle caratteristiche morali più forti dell'uomo e dello scrittore americano. Eccola, la forzatura. La confusione della visione semplicistica che si adatta attraverso un complicato movimento morale all'ancora più semplice vita che dovrebbe essere raccontata. In mezzo c'è troppa ideologia. E non dovrebbe essercene.

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