Napoli mon amour




Sono un provinciale. Dieci anni fa mi sarei definito con più onestà e coscienza "cafone". E come tutti i cafoni mi sforzo parecchio per tenermi aggiornato su ciò che cafone non dovrebbe esserlo. Pur non volendo, mi sbatto per sentirmi più vicino al centro delle cose. La moda letteraria me la spiega Giovanna, un'amica mia. E ultimamente Giovanna se ne è uscita che dovevo leggere Napoli mon amour di Forgione (NNE) per capire la nuova Napoli. Le ho detto ok, virimm.

L'ho schifato subito, 'stu libro. Con tutto il cuore. E pure con un po' di stomaco. Non per la scrittura (onesta, inoffensiva, vecchia) e neanche per la trama (solito racconto di disagio morale e intellettuale, ovvero di formazione procrastinata e fissazioni presentate come tormenti decadenti). L'imbarazzo di stomaco me l'ha dato il lento, estetizzato dispiegarsi dello scenario, il riflesso rigidamente convesso della realtà storica, sociale e ambientale di Napoli. Capito come? Il cinico controstereotipo in voga che non ha neppure il coraggio di cacagliare una critica o arrangiare un'analisi. Non dico culturale. Ma almeno logica. Analisi logica del contesto. Il protagonista, Amoresano, cioè uno pieno d'amore, è un abitativo. Un per cui. Un dal quale. Uno che tiene due lauree, ha lavorato sulle navi, studia, si tiene informato sui concorsi, legge tanti libri, pensa, si deprime e cerca di darsi la colpa per non aver ancora trovato il suo posto nel mondo. Un trentenne napoletano, sentimentale e immaturo, risolto verghianamente nell'assoluto irrisolto. Uno radicato e sradicato, che vuole e non vuole scappare dal quartiere in cui è costretto. Eccola qua la contemporaneità insinuate del saturo. La Napoli scura, chiusa, con mare e senza mare e distrattamente nostalgica che si oppone languidamente alla Napoli stampata dei tanto odiati e ammirati stereotipi. Il Centro storico bassoliniano. Gli alternativi. La vita da strada, ma al riparo dalla strada. L'estetica del Maradona malinconico che sbanda e sbava tutto fatto di coca in tribuna d'onore. Una volta si combatteva contro la banalità del tifo, delle opposizioni ideologiche, del caffè e dei personaggi picareschi. Mo, invece, tutte queste cose si accettano con gratitudine e vergognoso orgoglio. Ci si fossilizza sull'uomo emancipato dalla volgarità che vuole appropriarsi dello spirito rifiutato e superato dal volgo stesso. Un tollerante. Un arreso con la puzza sotto il naso a cui è venuta la perversione di annusare la munnezza stagnante esposta tipo arte concettuale nei vicoli del centro. La coscienza che non va da nessuna parte e che vorrebbe sempre partire, abbandonare l'inferno che poi è un paradiso o più simile a un purgatorio. Abbandonare per rimpiangere. Mica per mandare affanculo. L'esistenza sospesa tra il passato eternizzato e il futuro accanito, ovvero nel pop che è ragione e sovrastruttura apprezzata e disprezzata. Il privilegiato che è più disagiato dei disagiati. Perché il disagiato vero almeno si è imparato a campare e si confronta ogni giorno con una disperazione che non permette inutili contrattempi di riflessione. Mentre il privilegiato manca di sostanza e ha un istinto flaccido, per cui i suoi fallimenti diventano sempre noiosissimi e pretestuosi fenomeni di paralisi. Proprio anestesia totale.

C'era una volta il compiacimento della Napoli popolare, l'orgoglio dell'escluso. L'epica neorealista, l'oro di Napoli. La città del sole. Luce da tutte le parti. E mo invece è tempo di noir (I bastardi di pizzofalcone, Le api randagie, La città perfetta) e di brutalismo (le amiche geniali, i certi bambini, il centro direzionale, le Vele, Napoli Est). Ora trionfa il compiacimento della Napoli cosciente, margine del margine, sogno allucinato che subisce e mitizza i limiti e le sofferenze. Sofferenze che per fortuna sua conosce solo indirettamente. Il sottofondo perfetto per questa roba è Liberato. Musica innaturale. Espressività forzata che si permette un collegamento tracotante, irrispettoso tra glamour e uapparia. Liberato che piace tanto a chi si può permettere ironia e romanticismo. A chi si sforza di capire Napoli, mentre Napoli ha a che fare solo con una partecipazione extraintellettuale e sottointellettuale. Napoli sta nel risuonare della vera folk music napoletana. La musica neomelodica. Storie d'amore senza romanticismo. Roba ridicola, tragica senza un briciolo di ironia. La bellezza cruda, cattiva, crassa. La bellezza brutta. Da Il resto di niente a La pelle, da Ferito a morte a Erri de Luca. Dall'anima e chitemmuorto alla città che ti natcotizza, ti stona, ti prosciuga. La città alibi. La città della precarietà.

Il male relativo, che è la ragione dell'imbarazzo, sta nella pretesa di rendere lo sfondo protagonista non invadente. Di guardare l'oggetto e fraintenderlo, anche se questo oggetto è così potente, inequivocabile e sincero che si racconta benissimo da sé. Una qualità sola tiene Napoli: è sincera, pure quando ti fotte. E allora non va proprio bene fingersi realisti e consegnare una prospettiva così distorta, faziosa ma senza convenienza, scomoda ma solo di comodo. Ma qui si racconta una città fintamente nuova. Fintamente soggettiva. Senza sole. Senza Vesuvio. Contemporanea. Pure se la contemporaneità sfugge da tutte le parti. Pure se la Napoli vissuta è più falsa della Napoli della memoria (paradossalmente l'idealizzazione povera della Ferrante è narrativamente più motivata dell'idealizzazione piana di Forgione). E niente. Il problema è sempre la città. Questo perché, se il soggetto attivo è Napoli, è assurdo e scorretto fare del concetto di partenza e di fine un complemento di causa efficiente. Ci vorrebbe pietà. O crudeltà. Le vie di mezzo, gli sguardi aerei non vanno... Non è una questione di impegno. Figuriamoci. Mi piacque molto per esempio La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo.

Negli ultimi due anni ho letto almeno altri dieci romanzi che provavano a fare la stessa cosa. Dove l'intellettuale voleva fingersi non intellettuale per avvicinarsi alla profondità viscerale della città ma poi non ce la faceva e tornava alla tana della sofisticazione. Dicevano che il mare non bagna Napoli. La cosa aveva molto senso. Da un punto di vista intellettuale e letterario. Mo dicono sei più bella del Napoli che vince 1 a 4... e non tiene proprio senso, e non ha fascino. Non racconta. Non ha dignità e non dà dignità. E allora che senso ha un romanzo del genere? Dobbiamo pensare che lo sgondo non conti? E allora perché quel titolo? Napoli non si deve mai sfruttare con furbizia. E neanche personificare come faccio io. Non bisogna farne romanzo tangenziale. Non bisogna tenerla sotto o sopra la realtà. Saviano in questo non ha colpe. A suo modo, è stato più onesto. Ha espresso orrore, paura, disgusto e poi ammirazione, esaltazione. Cose che ci stanno quando hai a che fare con Napoli. Forgione e gli altri esprimono alienazione superficiale. A Napoli non è proprio possibile provare alienazione. Se provi alienazione, ti abbuffano di mazzate perché sei un soggetto e te le meriti.

Io, da cafone, ho un pessimo rapporto con Napoli. La vedo intera, dalla provincia casertana, e ne subiscono tutti gli effetti peggiori, che sono anche i più forti. Ma non mi permetto di svilirla in uno stereotipo parziale di mendace interesse. Uno stereotipo presuntuoso che osa sovrapporsi allo stereotipo secolare (anch'esso falso, ma falso che conviene e che produce). Che vuole far sentire i profumi inediti. Svelare una nuova Napoli. Ma con quale forza? Con quale rispetto? Napoli non è mai stata ridotta al forza Napoli. Ma neanche Nino D'Angelo.

A finale, sono andato da Giovanna, le ho ridato il libro e le ho detto "uh, maronn".

   

Commenti