Racconti italiani... Il 2018


Iene, narcisi e filistei





Ero a dieta. Mi ero detto basta racconti. Basta racconti italiani copiati dai racconti americani di cinquanta, quaranta, trenta anni fa. Basta riviste, raccolte tematiche, raccolte di genere e brevità varie. Ma pare che gli editori italiani abbiano riscoperto la dignità dei racconti o che abbiano d'improvviso capito che il pubblico dotto può interpretare come illuminata la scelta di pubblicare delle raccolte di testi brevi.

Ma dove sta andando e dove può arrivare il racconto italiano? Il libro di racconti più interessante dell'anno scorso, secondo moi, è stato Spifferi di Letizia Muratori, edito da Nave di Teseo. Roba di fantasmi. Molto horror inizio anni '60 in Italia. Tipo recitine in cui gli attori sbarrano gli occhi o si coprono il viso con le mani su pellicola in bianco e nero, per giocare meglio con le ombre, e si producono in lunghi silenzi, per meglio reagire ai rumori improvvisi che di certo arriveranno. Rumori che faranno sbattere i cuori e le tende. Movimenti sotto e sopra l'evidenza della stumentalità, trucchetti da quattro soldi e sputtanatissimi vari. Tutta merce preziosa per creare un po' di apprensione nel pubblico. E la Muratori fa esattamente questo nei suoi sei racconti. Crea suspense sul niente. Dà una prova di buona regia su carta. Spiazza e lascia che la scrittura si lasci spiazzare dal senso sfuggente delle storie raccontate. Ogni ritratto è godibile e sofisticato. Un piacere! La tecnica c'è ma non vuole dare per forza prova della propria potenza e della propria capacità di rendere il racconto una forma superiore e indispensabile per la narrativa. Voglio dire: il raccontare è opaco e limpido al tempo stesso. Estetico ma non estetizzante. La caratteristica vincente è lo spirito comune dei racconti: il senso di genere e di umore che passa da un racconto a un altro. 

Di buon livello mi è parso anche Se mai un giorno di Marco Vichi, edito da Guanda. Qui non c'è più traccia dello spirito comune di cui dicevo prima. I racconti si perdono per strade diverse. Via ironia. Via malinconia. Via satira. Via reportage... Sì, reportage. Perché a un certo punto Vichi si traveste da Marco Polo e scopre l'Oriente. Senza esotismo. Più come un documentarista cortese. Ci parla del Bangladesh con ritratti molto interessanti di vite comuni. Forse storie vere. Ma non ha importanza. E quando non parla di Bangladesh, l'autore spazia dai sensi di colpa alle vite conformiste, dai rapporti fra padre e figlia a quelli del genio con le sue opere. Vichi riesce anche a commuovere e a essere evocativo. Spesso mette in primo piano i dialoghi. E quando esagera perde un po' di smalto.

Poi mi è stato proposto in lettura Iene, narcisi e filistei di Andrea Mennini Righini (pubblicato dalla misconosciuta Echos edizioni, il cui catalogo, dico la verità, non mi pare così invitante). Un libretto minore. Sveviano. Venti storielle di meschinità col giudizio morale sospeso e il luogo comune chiamato in causa una continuazione, senza timore intellettuale e senza impaccio etico. Non tutti i racconti sono memorabili e lo schema formale rischia di incartarsi e svilirsi nella prevedibilità della tecnica narrativa. Ma a parte questo si riscontra gioia e passione nel racconto, forza rappresentativa e acume. Già, proprio acume. Quello che manca agli scrittori che cedono alle richieste del pubblico o che se ne allontanano reattivamente, come bambini dispettosi e spaventati. Righini guarda alla realtà. A quella percepita dagli sguardi superficiali e a quella immutabile e crudele e doppia e non giudicabile dell'egoismo trionfante. I suoi personaggi sono uomini di merda, squallidi, viscidi, cacasotto, nuovi inetti (ecco Svevo) senza coscienza e senza voglia di capire. Ce n'è uno che riceve una lettera dall'amante che si è tenuto per tanti anni. Lei è una disperata, senza un soldo, sotto sfratto e con due figli a carico inseguiti dagli assistenti sociali. Lui pensa a una lettera di recriminazioni. E invece è una lettera di gioia: la donna ha vinto al superenalotto e vuole condividere con un amico fidato la sua felicità. Allora l'uomo si mette subito in macchina per raggiungerla, ma sotto casa di lei trova la polizia. C'è stato un incidente. Lui si avvicina alla macchina incidentata e scopre che la sua ex amante è lì dentro, morta. Allora scoppia a piangere, devastato e si sporge nell'abitacolo. Ruba il biglietto vincente che ha visto sul cruscotto e torna a casa dalla moglie.

Questo è l'umore dei racconti. Disperazione senza condanna e redenzione, follia comune e socialmente integrata. Normalità, ovvero schifo nascosto sotto il tappeto. Tristezza rimossa e dimenticata, errori impuniti o pagati troppo cari. Vittime che vorrebbero farsi carnefici. Salvatori indifferenti. Ironia leggera leggera. Certe volte commovente. E poi ci sono i giochi linguistici con i termini antichi e quelli contemporanei. Il discorsivo fuori dal discorso. Non tutto è levigato ed elegante. Ci sono un po' di parti noiose e ripetitive, ma il succo è tanto e nutriente. Sangue.

Ero a dieta ma mi sono goduto questi raccontini, che sanno di novelle e di vignette prolisse. Mi sono goduto anche le storie un po' più tristi e auliche di Vichi e l'horror spiritistico della Muratori. Tre buone buone prove. Nutrienti. Proteiche. Come carne di carogna. Alimento per iene e fantasmi, roba così.

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