La rivincita dell'Harmony: il femminismo pop nella letteratura contemporanea

Femminismo letterario: questo è

Non ho mai studiato la letteratura femminista. Conosco qualcosa, e da quel qualcosa mi pare di intuire che il femminismo non abbia mai prodotto grandi opere teoriche o narrative. In America, Inghilterra e Francia c'è dibattito, interesse, polemica, confronto. E quindi ogni tanto è venuto fuori qualcosa di interessante e coinvolgente. In Italia a un certo punto è passata per femminista pure la Fallaci, e ho detto tutto. 

Ma non è che se una scrittrice ce la fa e diventa importante deve essere per forza ingabbiata nel contesto del femminismo. C'è chi parla di femminismo con Jane Austen, nei cui romanzi trionfa il più chiaro sentimento reattivo dell'oscurantismo e del tradizionalismo vittoriano. Virginia Woolf era una femminista, direte voi. Ok, dico io. Ma una femminista incompleta, riluttante. Privatamente e spiritualmente lottò contro gli stereotipi di genere. Riuscì più o meno ad emanciparsi, a farsi valere in un mondo di baffoni e damerini, e a crearsi e poi a sfruttare alcune opportunità di realizzazione che al tempo erano impossibili per le donne. Nei suoi romanzi spuntano qui e lì momenti di consapevolezza e chiari conati di volontà di emancipazione, quasi tutti concettualmente diretti a un discorso femminista. Ma non sta là il senso della sua scrittura, e nemmeno il fine. La signora Dalloway è un testo importante per l'emancipazione femminile, immagino, eppure il tema fondamentale del romanzo è un altro. In Le tre ghinee si parla più apertamente di differenze fra uomini e donne (anche se la Woolf non insiste su uno squilibrio da sanare in questa differenza, anzi riconosce nella donna un individuo istintuale che non può capire gli istinti dell'uomo), ma là dentro non c'è un vero e proprio discorso sociopolitico dedicato alla teoria femminista. Ancora più importante è Una stanza tutta per sé. Ma è importante l'interpretazione postuma più che il testo in sé.

Neppure il fatto che una scrittrice o un'operatrice culturale sia stata una sostenitrice dei diritti delle donne rende le sue opere automaticamente femministe. Prendiamo Margaret Fuller. Una figura esemplare. Una lottatrice, un'avventuriera, coraggiosissima. Una che nell'Ottocento è riuscita a conquistarsi un pubblico gigantesco come articolista e poi a specializzarsi come prima vera giornalista d'inchiesta. Ma quanti suoi articoli sono pienamente dedicati al tema del femminismo? Due? Diciamo uno e mezzo.

In definitiva: i testi di riferimento del femminismo quali sono? Il secondo sesso di Simone De Beauvoir. Non certo un'opera eccellente dal punto di vista teoretico. Brutta da leggere, poco originale dal punto di vista filosofico, banale dal punto di vista sociologico e politico. Il secondo sesso è, a voler essere buoni, un riassuntino della filosofia di Sarte, con la parola "donna" al posto di "ente". Il manifesto teorico del femminismo è quindi robetta. Per trovare qualcosa di più profondo, viscerale e strutturato dobbiamo aspettare gli anni '60 con Adrienne Rich, con le sue poesie e con i suoi testi critici come Diving into the Wreck. Poi che ci sta? La politica del sesso di Kate Millett, dove per la prima volta non si parla più di uguaglianza ma si rivendica la differenza fra i sessi... Infine mi viene in mente Naomi Wolf, e nessuno più.

E in Italia. Abbiamo il trio Lonzi, Banotti, Accardi negli anni '70 con il loro ingenuo Manifesto di rivolta femminile. E poi ci sono tanti testi specialistici dedicati a temi particolari. La storia della condizione della donna in questo o quel contesto. La critica al concetto di famiglia. La critica ai concetti della sessualità finalizzata alla riproduzione. Libertà dell'aborto. E poi tutti i libri di autocelebrazione o di lagne di personaggi già noti che si schierano contro il patriarcato e raccontano quanto è stato difficile essere donne in un mondo di uomini. Ma in Italia il femminismo non è mai piaciuto troppo all'editoria. Perché non ha coinvolto un pubblico in grado di garantire guadagni adeguati. E i movimenti di lotta si sono sempre tenuti sotto l'ombra protettiva di movimenti più grandi, come succursali, che ogni tanto sparivano o mutavano orientamento. 

Le cose sono andate meglio quando dalla lotta di piazza e di accademia si è passati alla televisione, alla moda e al gossip. E non a caso gli organi di informazione più importanti del femminismo italiano, storicamente parlando, lo sapete quali sono? Elle, un giornale che parla di cosa ha indossato Belen o di che dieta ha fatto Loredana Lecciso, e IoDonna, con le sue sezioni Moda, Beauty, Royal Family e Benessere. Non scherzo. Ci sarebbe una rivista ancora più importante, collegata ai primi vagiti della lotta e sopravvissuta ad alterne vicende, che sarebbe Effe (che fantasia), che però va avanti come mero archivio e collettore di notizie e articoli esterni. 

Ma le cose sono cambiate. Grazie ai social. Graie al metoo. Ora le femministe contano di più, pure in Italia. L'anno scorso è uscito per i tipi Marsilio Madri e no di Flavia Gasperetti, dove si parla di storie di donne che scelgono o no di diventare madri, affermando che entrambe le posizioni sono perfettamente femministe. Che è sbagliato dire che le donne sono tutte madri, ma anche no. Che è sbagliato continuare a dare troppa importanza alla maternità, ma anche no. Che è ingiusto celebrare le madri che si abnegano e si spezzano la schiena per incarnare pienamente questo ruolo, ma anche no. O una cosa del genere. Il bestseller in senso di nuovo femminismo pop e da social è Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi, edito da Rizzoli. La Blasi è una linguista, docente di semiotica. Ed è pure un'esperta di social e nuove tecnologia. Da un po' anche una delle più strenue alfiere della demascolinizzazione della lingua italiana. Lei e Vera Gheno (accademica e traduttrice, italo-ungherese, e autrice di vari saggi sull'uso corretto dell'italiano e poi di Femminili singolari) sono le vere responsabili della moda prima dell'asterisco e poi dello shwa.

Lo sforzo teorico della Blasi è produttivo e coinvolgente, appassionato e sottilmente dotto. Ma anche parecchio strumentale e fragile dal punto di vista concettuale. Vorrebbe essere filosofia pop. E infatti è una collezione di tanti giudizi preconfezionati e slogan da incorniciare come didascalie su Instagram, che poi oscurano la parte buona del testo, ovvero tutti quei ragionamenti e nessi linguistici e storici più interessanti. Questioni di genere, le chiamano. E le stesse questioni diventano un genere. Con cui vendere libri. Domina per ora il sociolinguismo magro, con lo 0,01% di grassi e il 25% di contenuti transfemministi e militanti da social e da Propaganda Live. Sia la Blasi che la Gheno sembrano essersi ispirate al saggio-pop di Valentine Aka Fluida Wolf, Postporno (uscito su Eris Edizioni). Roba da pride very pride. Un testo un po' più provocatorio e divertente. Che mette in primo piano i corpi. Mentre le altre due decidono di toglierli di nuovo per mettere i lemmi del vocabolario. Da punto di vista sociale e politico si muove meglio e con più risonanza Michela Murgia. Il suo Stai zitta ci dice quali frasi che l'uomo dice ogni giorno sono schifose espressioni del patriarcato. Visto che non è difficile immaginarle, non vi consiglio di spendere soldi per scoprirlo tramite la scrittrice sarda.

Poi ci sono i romanzi, che cercano di offrirci una figura di donna superemancipata. Ma per farlo devono prima mostrarla superoppressa. Per tenere insieme femminilità intesa come delicatezza (fragilità) e nuova femminilità intesa come resistenza e forza d'animo (cazzimma). Come Fiore di roccia di Ilaria Tuti, il libro che tutti comprano e apprezzano e poi commentano con frasi tipo: "Un libro necessario che ci insegna il valore della resilienza della femminilità". O "siamo così, dolcemente complicate...".

Cosa voglio dire? Che sì, ok, si è ricominciato a lottare su temi importanti come l'abbattimento di schemi mentali e stereotipi e via dicendo, ma dal punto di vista editoriale la qualità è scarsa. Il femminismo pop cresce e si fa sentire, ma non incide né offre qualcosa di rilevante. Pensate davvero che lo shwa sia una battaglia che migliorerà la condizione femminile?


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