Al tempo degli articoli che recitano nel titolo la formula "... al tempo del covid"...


Miei cari, ho resistito fino ad oggi. Non ho neppure dato un'occhiatina alla Peste di Camus, per dire. Sì, lo so, il verbo "resistere" in un contesto del genere non significa un cazzo e dà pure un po' fastidio. Ciò che vorrei esprimere è che ho provato a non lasciarmi infettare dalla voglia di scrivere sul covid. Niente citazioni di Camus, appunto. Niente Decamerone, Promessi Sposi, Massa e potere. Niente Lucrezio. Ho evitato di dire l'inutile mia e di ribadire la loro sul dramma, di raccontare i miei disagi privati, o di lamentarmi attraverso le parole degli altri. Non ho criticato i cattivi. Non ho bestemmiato contro gli esperti e i controllori. Non ho voluto piagnucolare, per non appesantirmi e non appestarvi più del dovuto. Spero che abbiate apprezzato.

Ma adesso, anche se non ne siamo ancora usciti, dato che le questioni marginali connesse all'epocale rottura di cazzo del virus sembrano un po' più definite e, dunque, interpretabili, mi verrebbe da inquadrare il problema storico dal punto di vista letterario. Al di là dei troppi morti di cui si parlerà poco e male, degli ospedali in crisi, delle chiusure, delle paure varie che interiorizzeremo o faremo finta di non aver interiorizzato, dei virologi superstar, dei complottisti idioti e laureati, dei lieviti madre e delle mascherine, già si ragiona sulla ripartenza. Ripartire: che bell'immagine. Ci lascia immaginare che ci sia una destinazione. Una direzione. In tutto. Nell'esistenza, nella storia, nella cultura. 

Visto che questo blog parla di letteratura, voglio concentrarmi su una domanda. Verso quale direzione ripartirà la letteratura? Detta più in generale... Che cosa ha imparato l'editoria da questi mesi di pandemia?

Risposta a freddo al primo quesito: verso i soldi. Risposta a tiepido sul secondo: niente.

Librerie chiuse e poi riaperte con autocertificazione, un piccolo editore su dieci che fallisce, uscite rimandate, milioni persi, cataloghi stravolti, timidi tentativi di lanciare l'audiolibro o di riscoprire l'ebook, licenziamenti, presentazioni su zoom... Tutta roba triste, che ha dimostrato ciò che già si sapeva. Cioè quanto l'editoria italiana sia fragile, priva di coraggio e di utilità funzionale nel sistema. La letteratura poteva star ferma. Era forse meglio che si stava ancora più ferma. Un po' di retromarcia non avrebbe fatto male. Un'inversione? No, per quella ci vuole coraggio. Che come abbiamo detto non c'era. Ma le macchine vecchie fanno sempre qualche scherzetto. Se le spegni non sai mai se ripartiranno. Dicono che negli altri Paesi il lockdown ha significato una crescita enorme del settore editoriale. Sarà vero? Secondo questa voce, la gente, chiusa in casa senza niente da fare, ha ricominciato a leggere. Americani, cinesi, francesi, tedeschi e greci a leggere e a migliorare culturalmente e umanamente. In Italia no. E non per colpa di chi? Colpa di chi offre il servizio o di chi ne usufruisce? D'istinto sarebbe facile puntare il ditino disinfettato contro gli italiani ignorantoni e caproni, che non sanno chi è Caproni, e che non toccano un libro neppure per sbaglio. I più inseriti, cioè i lettori, diranno invece che è tutta colpa della pavida indifferenza degli editori.

Grandi e piccoli marchi si sono ritirati. Hanno subito nascosto la testa e alzato le mani. Fermi nelle vecchie convinzioni, tipo lo stupido astio nei confronti di amazon (il loro alleato più grande). Certo, hanno pesato prima il blocco totale delle attività imposto dal governo, il fatto che le redazioni siano state incapaci di lavorare in startworking e i ritardi nei trasporti. Ma nessuno, in quella situazione, ha provato a sfruttare le mille potenzialità aperte dalla crisi e a insistere con una degna proposta culturale. Quando ci si ferma, di norma, ci si guarda alle spalle. Ci si orienta. Ci si ricarica. Si ragiona sul da farsi. Quali sono state le preoccupazioni culturali italiane durante questa pausa di riflessione forzata? Si è parlato della cazzo di schwa, la e ribaltata. Che quando la studiavo in linguistica si chiamava scevà, e invece ora si dice in tedesco, e nessuno sa il perché. Insomma, la letteratura del futuro dovrebbe scegliere questo carattere per evitare di specificare il genere sessuale di personaggi o referenti. Un neutro. Da imporre. Si può fare, dicono i bravi linguisti: la lingua italiana è mutevole. Si deve fare dicono gli impegnati. Fluidifichiamo. Sì, ok. Si può, è vero. Ma la lingua cambia di solito dal basso. Certe volte pure dall'alto. Ma non per decreto. Nemmeno per idealismo. Arriva un Dante e fa vedere che si può fare, lo fa e lo fa bene. E la gente lo copia. Funziona così. Non è che Dante scrive un post su Facebook e dice che si deve fare così, perché è giusto così, e gli altri rispondere ok, è vero, lo facciamo subito. Prima arrivate in alto, questo è il mio messaggio. E poi pontificate. 

Con il ritorno alla normalità (che espressione orribile!) non rovesceremo né ribalteremo le e. Lo farà qualche fesso. In piena libertà. E poi ci troveremo di fronte ai grandi marchi impegnati a rilanciarsi con tutti i nomi più commerciali e sputtanati, è sicuro. I piccoli editori, invece, ne usciranno più poveri e sconvolti. Gli scrittori faranno a gara per partecipare a presentazioni dal vivo, a rota di conferme, tipo tossici. I lettori compreranno la solita merda. Ripartiremo dal passato. Senza slanci, senza nuova consapevolezza, senza forza. La pausa forzata si dilaterà per tre o qualche anno. Non sarà servita a niente. Neppure come tempo di riflessione e autocritica.

L'editoria si piangeva addosso prima della pandemia e continuerà a piangersi addosso quando il covid, speriamo, verrà superato. E tutto ciò non è neanche così triste. Mi pare solo noioso. Pensiamo di nuovo a quegli scrittori che hanno deciso di posticipare le uscite dei libri per non perdere lettori... Quanta pochezza!

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