Niente di vero su Niente di vero

Veronica Raimo
Sì, si sta spremendo al cesso


Niente. Niente di giudicabile può venir fuori dal gossip dissimulato, dalla comicità fluoridrica e dell'autofiction da psicoanalisi. Si è al di là del bello e del brutto. Perché niente esce davvero fuori quando si tira fuori di tutto e di più. Dalla pagina e dall'intestino. Con una peretta.

Stitichezza. Questo è il tema del romanzo di Veronica Raimo. Niente di vero. Stitichezza come concetto chiave, fisico, spirituale e morale. Ci si fosse fermati al fisico, insomma, sarebbe stato un romanzo di grande coraggio e profondità (viscerale e digestiva). E invece no, quando mai. Si assolutizza assolutissimamente. Si trascende. Si fa dello sforzo insoddisfatto un'allegoria. Con il buono che compare quando il nonno si preoccupa, con empatia, delle alterazioni funzionali dell'intestino della nipote. Le stringe forte le mani. Spremiti, nipotina mia. Caccia fuori il male.

E giù lodi. 

L'autrice racconta la formazione di una donna statica, stitica e nevrotica, soffocata da una famiglia imperativa, artistica, sensibile, violenta e per questo sorda, orribile. Con il padre ipocondriaco, presuntuoso e vecchio dentro che devia ogni proiezione costruttiva di sviluppo emotivo. Una madre, al contrario, infantile, volatile, acida come un detergente da quattro soldi. Un fratello da Nobel. Forse scemo, ma da adorare. Un personaggio di Salinger senza giustificazioni per la propria stronza boria da super intellettuale. Parenti grevi, che più vai a Sud e più si fanno cafoni. 

Una vita di dolori. Al cesso. Metaforicamente e concretamente. Tutto somatizzato, you know. Interiorizzato. Dentro, a fondo. Un fondo senza capacità, vale a dire incapace di profondità reale. Con questa strisciante glorificazione dei difetti in chiave satirica o tragica di tutti i personaggi. Caratteri ingiusti ma criticati per le ragioni sbagliate e nei modi sbagliati.

Orgoglio e pregiudizio e costipazione.

E giù lo scarico.

L'autrice sembra volerci dire: guardate che coraggio, guardate che coscienza! Non provo imbarazzo a mostrarvi demoni da esorcizzare e feci da ammorbire. Dico che non è niente di vero perché è tutto troppo vero. E voi dovreste piagnucolare con me e al contempo elevarvi e darmi ragione, magari sorridere di questo affascinante sfacelo. Viva l'imbarazzo che oggi si chiama cringe. Ma se è imbarazzo calcolato e calcolante, però, non dà la stessa soddisfazione dell'imbarazzo che imbarazza soggetto e oggetto, attore e spettatore. Il problema è questo qui. Sulla scrittura, boh, non mi va di dire. Dirò solo che alcune frasi, le più semplici, sono bellissime. Altre sembrano buttate lì. Le peggiori sembrano quelle in cui l'autrice insiste su battute e mezze battute che lasciano indifferenti o su un'ironia, come detto, acida in soluzione acquosa, che intossica per l'astio reattivo più che per il contatto diretto. Un cinismo elettronegativo ma innocuo, saputello e noisetto.

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