Come tigri nella neve. O come cacca di tigri nella neve

Esistono più, le cortigiane? Forse sì. Ma per scoprirlo credo sia necessario possedere tanti soldi e un po' di dimestichezza morale con la buona, vecchia cultura decadente. In Corea, fino a poco fa, c'erano le kisaeng. E una kisaeng è una via di mezzo fra la geisha e l'escort. L'ho scoperto leggendo Come tigri nella neve di Juhea Kim, edito da Nord, con la traduzione di Emanuela Damiani. Un romanzo che mi ha edotto su numerosissimi fatti inutili. Storicamente, ho appreso contenuti più o meno interessanti che ignoravo, ma quasi sempre per vie traverse, così come deve succedere in narrativa. Contenuti che quindi avrei potuto apprendere prima e meglio con un giretto su wikipedia. Culturalmente, ho afferrato che il ribaltamento valoriale reattivo di matrice femminista non è una questione totalmente occidentale. O forse lo è, ma che comunque ha già trovato delle ottime contraffazioni orientali. O delle manipolazioni. Questo è da indagare.



Dicevo di aver scoperto cose che non sapevo riguardo la storia contemporanea coreana (periodo di riferimento: dalla guerra mondiale alla guerra in Corea, piu o meno, cioè, dal punto di vista interno al romanzo, dall’imperialismo nipponico alla scissione del terrotorio nelle due zone di occupazione, nord e sud). Poi che più? Sì: ho scoperto che cos'è l'inyeon. Ovvero il concetto fondamentale del testo. Il fine estetico che è pure presupposto tematico dello spirito del romanzo.

Come spesso accade per i concetti pigliati da tradizioni orientali, è una parola che racchiude in sé venti significati diversi, spesso contraddittori, ma che il nostro opportunismo culturale ci fa semplificare in una parolina chiara e bella capiente. Nel caso specifico, la parolina è "legame". O, se preferite, il suo sinonimo modernissimo "connessione".  Si tratta di un determinismo spirituale che ti unisce al di là dell'identità a certe persone o a certi ruoli. Una forza a cui puoi pure ribellarti, ma a tuo rischio è pericolo. Suona come una cosa brutta, ma non lo è fino in fondo. Non per una certa sensibilità che possiamo solo intuire attraverso un'astrazione fuorviante.

Il problema con tutti i testi cinesi, giapponesi ma anche indiani che ho letto finora è sempre stato quello di trovarmi di fronte a un impianto concettuale davvero deludente: banale. Non avevo mai letto niente di coreano... Ma anche qui è successo lo stesso. Un problema relativo alla traduzione, mi sono sempre detto. Non quella pratica del traduttore, ma l'idea stessa di trasposizione di un concetto, uno spirito, da una forma mentale all'altra. 

Seh, è inevitabile finire nelle sabbie mobili del discorso ermeneutico. Quindi mi fermo tre passi prima. Parliamo del romanzo. Una storia d'amore in un contesto di guerra. Di incontri e scontri, allontamenti e riconciliazioni. Il tutto determinato da un destino molto simile alla meridionale scalogna. Più generazioni, più tragedie... e poi una tigre da cacciare. Sulla neve. Nella più inflazionata delle immagini possibili. E fin qua, tutto abbastanza lineare e motivato. Un po' noioso, ma pure affascinante. Infine, pure sulla candida neve, appare la deiezione. Merda contemporanea e reattiva, come vi anticipavo. Mi sento un po' svogliato e in contraddizione ma ve lo traduco lo stesso. Ciò che appare è il tema del riscatto. Della coscienza e del ribaltamento valoriale. E, per farla breve, capita che il quadretto buddhista ottimamente frammischiasto alla cronaca umana troppo umana di vittime e resistenti diventi lo scenario per le strumentalizzazioni monogeneriche ed escludenti di un'amica geniale sudestasiatica. Sì, il romanzo è tutto teso all'espressione di un senso rivoluzionario e politico, ed era pure giusto. Ma c'è un senso sopra un senso che stona e che sembra applicato lì a forza per blandire lo sguardo critico femminile occidentale. 


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