Umani del tardocapitalismo. Una tragedia senza dèi né eroi, di Samuel Reolfi

Idea carina ma non proprio originalissima. Da manga prolisso. L'autore di questa sedicente tragedia immagina la venuta nel nostro mondo di una dea tibetana. La dea della compassione. Con tre occhi, una proboscide e otto braccia. E svela poi il motivo per cui questa creatura del nirvana dal carattere orgoglioso e all'apparenza ben poco compassionevole sia stata costretta a mischiarsi con l'umana miseria. In pratica, la cara dea deve scoprire quale orrendo vizio ha contaminato e poi corrotto il mondo con tutte le sue creature. E poi, finita l'analisi, deve riferire al Buddha le ragioni per cui non c'è più possibilità di pace, illuminazione e coscienza fra gli uomini.


Per far ciò, la strana protagonista sceglie un accompagnare, un umano. Nella fattispecie un ragazzino chiamato Abdul, figlio di un kebabaro malvisto da tutti gli abitanti razzisti del suo paese d'adozione. Un paesino italiano, non meglio specificato. Ma che potrebbe essere un posto qualsiasi, da Nord a Sud. Visto che la miseria morale è il vero fondamento che ci unisce come popolo.

Umani del tardocapitalismo di Samuel Reolfi è un romanzo che cede spesso alla confusione e alla sovrabbondanza di riferimenti. Ma lo fa con una certa grazia e senza saccenza letteraria. Anche se cita la tragedia greca e l'idealismo tedesco, la spiritualità indiana e il marxismo, non si crogiola nei concetti. Ogni tanto si bea dell'oscurità e dell'ermetismo propri della scrittura mistica, eppure non smarrisce la via del racconto. La storia riesce ad andare avanti e a esprimere un senso unitario. Inizio, sviluppo e fine. Narra situazioni, sentimenti, emozioni. Al contrario di Ferrovie del Messico ha un centro vero. Tanto per dire.

È una lettura impegnativa ma non snervante e nemmeno noiosa. Lascia qualcosa e talvolta diverte. Contiene anche alcuni passaggi, specie nella prima parte, davvero ben scritti. Quasi raffinati. L'autore ha giocato anche a fare Joyce, ma con la dovuta ironia. E ha reso con chiarezza concettuale la sua prospettiva. Ha avuto il coraggio o l'urgenza o la voglia di condannare e insieme assolvere l'umanità. La dea, piano piano, acquista uno sguardo umano troppo umano. È una protagonista che si fa apprezzare per le sue gravide imperfezioni. Impara la pietà attraverso l'indignazione e lo scandalo. Il lettore, immagino, dovrebbe poter fare lo stesso. Ma forse si bloccherà di fronte a tematiche un po' troppo prevedibili e tirate per le lunghe. Resta l'affascinante confusione. Il pienone di personaggi in cui riconoscere casi umani. Noi stessi? Pure...

Il crescendo di peccati e vizi, e qui c'è la nota dolente, non è un vero e proprio crescendo, e si perde nel grande classico cristiano della denuncia dell'egoismo, che può sempre trovare la via della redenzione. Sarebbe stato più appropriato rendere questa tragedia una vera tragedia. E non lasciare scampo.

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