Lune, streghe, ragni nel fantasy del Leopardi giamaicano

Niente ganja


No, calmi: non sono un prevenuto e non voglio essere prevedibile. Nel senso che non parlo sempre male dei libri. Certe volte sono persino benevolo. Capita pure che mi venga voglia di trattare un dato libro meglio di qual che il libro in sé si meriterebbe. Tutta una questione di reazione, lo so. Non volendo sembrare troppo stronzo, avvelenato, negativo e monotematico, succede che mi lascio andare a giudizi generosi. Ed è così che la volontà di non essere prevedibili cede alla prevedibilità del ricatto morale o sociale o sciomorale o morosociale. Non lo so. So che l'essere troppo generosi è un sintomo di debolezza. E so che la debolezza mi è più congeniale della forza. Ma ogni giudizio è un piegarsi a un'aspettativa di un'aspettativa. E per questo non ci si dovrebbe mai fidare, nemmeno del proprio gusto.

Prendiamo Marlon James. Tipo simpatico. Prendiamo il suo luogo d'origine, la Giamaica: posto fichissimo. Prendiamo il suo ultimo libro uscito in Italia: Strega della luna, re ragno: titolo simpatico. Prendiamo pure la casa editrice che lo ha pubblicato, la Frassinelli: pure lei simpatica.


In tutto questo, pur volendo, come si fa a stroncare un libro così? Il concetto apparente è condizionante: introduce una suggestione che si incrosta su valori sepolti nell'inconsio. Oh, pensi, uno come James mica puoi giudicarlo come l'ultimo stronzo... Non può esserlo. Ti dici: questo è uno che ha vinto un Booker Prize e che, così, all'improvviso, se ne esce con un fantasy. Ed è una cosa teoricamente affascinante. Un'uscita che sembra divertente. 

Un fantasy. Una trilogia, manco a dirlo. Ma per fortuna, il romanzo in questione, che è il secondo dei tre, pare che abbia senso anche se non si è letto il primo. E io il primo non l'ho letto. E non so dire se abbia davvero senso. Narratologicamente ha un inizio e una fine, sì. Ma non sono sicuro che abbia uno scopo estetico espresso.

Particolare della copertina del nuovo librone di Marlon James

In tutto ciò Marlon mi è schiettamente simpatico.  E, sempre schiettamente, devo ammettere di essermi avvicinato a questo testo con una sospetta idiosincrasia. La simpatia mi ha messo in allarme e infastidito. Lette le prime due pagine del romanzo, che è un fantasy, come ho già detto, ho capito che l'idiosincrasia provata era dovuta al troppo colore offerto dall'autore a una materia cui competevano maggiori chiaroscuri. La simpatia è sopravvissuta all'impressione. Il colore, dopotutto, è un effetto prevedibile per un autote giamaicano. Sto banalizzando? È sicuro... Ma non per una questione esotica e neanche perché da ragazzino mi devastavo di bob ascoltando Buffalo Soldier. James è immaginifico. Pure troppo. S'inventa dei personaggi che sanno di folklore pre-rastafariano sintetizzato con miti wagneriani. Shakespeare, Vodooo e Luther King. Streghe ultracentenarie. Lupi. Ragni. Intrighi. Battaglie. Maledizioni. Para-Paralipomeni della Batracomiomachia. Para-leopardini para-pan-africani. E poi, che vi credete, il fantasy è fantasy simbolico. Suadente e romantico. E politico, come non poteva essere altrimenti.

Ahimé, che l'incanto apparente nascondesse la fregatura, ce ne ha avvertito subito la didascalia inserita su margine alto della copertina: Bestseller del New York Times. Il rischio di James è proprio quello di essere finito nel gorgo degli scrittori capaci di scrivere libri che possono e devono piacere al potente giornale americano: roba cool, ma non troppo, politica ma non troppo, letteraria ma non troppo. Troppo ma non troppo.

La battaglia che si combatte nel romanzo è uno scontro sociale e ideologico fra tradizione e progresso, sud e nord, vitalismo e decadenza. E la cosa più bella è che James sembra non fare il tifo per nessuno dei due schieramenti. Sembra pensare di più al destino dell'innamorato, per far sì che questo fantasy diventi soprattutto una storia d'amore.

Dette tutte queste cose, devo aggiungere, che il romanzo è tirato molto per le lunghe e a metà percorso stufa. Su Marlon James confermo le mie impressioni: è bravo, ma è presuntuoso. E non credo varrà la pena leggersi tutta la trilogia. Il romanzo ha qualcosa di sinistramente ilare e psichedelico. Ma manca di intensità e di profondità intellettuale. La politica e la critica storica sono come al solito strumentali. James vuol far Leopardi e nomina pure dei leopardi, ma si ferma al simbolo, cosa che il poeta di Recanati aveva superato a tredici anni, o a quattordici. La traduzione mi sembra troppo compiaciuta.

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